ASCESI E GIOIA IN ANTONIO IL GRANDE
L’argomento di questa sera, che riguarda il tema della gioia della vita nell’esperienza di
Sant’Antonio, ci porta alle origini della vita ascetica. Non è certo Antonio il primo asceta, il primo
che si era ritirato a vita ascetica: si conosce almeno per qualche testimonianza, un eremita di nome
Paolo, San Paolo, eremita, che avrebbe preceduto l’esperienza di Antonio, ma di questo Paolo, il
primo eremita, non abbiamo molte notizie, anche se ancora oggi in Germania c’è una congregazione
di eremiti che si richiama a Paolo, primo eremita. In ogni caso, non è difficile dire che Antonio non
è certamente il primo eremita, però è il primo del quale si conosce la vita. Abbiamo una Vita, un
testo agiografico. Per cui proprio questo fortunato testo agiografico ne ha favorito la conoscenza in
oriente e in occidente. Conosciamo il suo insegnamento, le caratteristiche della sua ascesi: fu
veramente padre di altri asceti, per cui non è fuori luogo celebrarlo come il “grande”, il patriarca del
monachesimo in generale. Ripeto, con questa precisazione: per quanto ci sia consentito dalle
testimonianze.
Prima di affrontare il tema che ci interessa (perché tutto quello che riguarda Antonio ci interessa, in
quanto la tradizione monastica si è rifatta spesso al suo esempio, al suo insegnamento eremitico, ma
anche la tradizione cenobitica), vedremo che ci sono degli aspetti di grande attualità nell’esperienza
di Antonio, proprio nel tema che studieremo questa sera. Poi, c’è un’altra tradizione che riguarda
questo santo, quella del protettore del bestiame, per cui è detto anche “del porcello”: questa è una
tradizione molto più recente, anche se risale a mille anni fa, quando un gruppo di penitenti si
radunarono sotto il suo nome e fondarono un istituto degli antoniti, o degli antoniani, di
Sant’Antonio, una congregazione di orientamento caritativo, ospedaliero, che assisteva i poveri.
Siamo nel secolo XI, quindi, non erano in molti: offrivano da mangiare ai poveri, avevano delle
stalle per poter tenere le bestie da macello, necessarie per fornire il cibo da dare ai poveri. Avevano
dei maiali, erano protetti da questo santo – ecco come è nata la tradizione di Sant’Antonio,
protettore del bestiame, per cui anche oggi, il 17 gennaio, particolarmente nei paesi della Brianza, si
accendono i falò per benedire le stalle e fare un po’ di festa attorno a questo folclore. Non c’è niente
di male, è il volto del santo popolare, ripreso nel secolo XI e che oggi divulga di più la sua
immagine, ma è un altro aspetto di Sant’Antonio che studieremo stasera, il Sant’Antonio secondo la
Vita scritta da Sant’Atanasio.
Nato nel 250 d.C. circa, nel Medio Egitto, in una famiglia cristiana, è ancora giovane quando
rimane orfano. Un giorno, ascoltando la Messa, sente quelle parole dette al giovane ricco: “Vai,
vendi quello che hai, dallo ai poveri...”(Mc 10,21). Sembrano parole rivolte a lui personalmente ed
egli comincia a metterle in pratica. Ha una sorella, perciò non può vendere tutto: lascia qualcosa per
la sorella e si ritira in un luogo vicino al suo villaggio per condurre una vita eremitica, tutta dedita al
lavoro, alla preghiera e alla lettura della sacre scritture, in solitudine quasi completa. Con il passare
degli anni, aveva circa trentacinque anni, quando sente che quella vita non gli soddisfa ancora,
perché è troppo vicina alla città dove abitano gli altri e compie un altro passo. Va nel deserto per
vivere una vita veramente solitaria, sennonché anche in questo deserto viene presto scoperto da
altri, che lo scelgono come maestro ed egli ha un momento di perplessità se deve o no vivere con gli
altri. Forse sarebbe meglio tornare in città, dove i martiri stanno rendendo testimonianza alla fede,
per non essere di meno? Perciò ritorna in città, ma non viene preso e condannato come cristiano e
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può tornare alla sua solitudine eremitica, ma con tanti discepoli. Allora si decide sul passo di
inoltrarsi ancora di più nel deserto per vivere veramente da solo.
La sua scelta dell’ascesi all’inizio lo lascia ancora vicino alla città, in un secondo tempo lo spinge
un po’ più lontano e finalmente lo porta su una montagna, dove egli può realizzare la sua vocazione
eremitica, ascetica. La Vita vi dice che egli abitò “in una tomba” – sarebbe non come l’intendiamo
noi, ma una cappella dove, com’era di consuetudine in tutte le chiese dell’epoca, c’era sepolto
qualcuno. Ma non era del tutto solo, perché ormai era molto vecchio ed era assisto da due discepoli
che praticano gli esercizi spirituali di cui parla spesso la Vita, ma non sappiamo di preciso in che
cosa possano essere stati, questi esercizi di preghiera, di penitenze. E là s’incontra con degli altri
eremiti che abitano nei paraggi, ha con loro rapporti fraterni, riceve segni di approvazione da parte
della Chiesa di allora e da parte degli imperatori cristiani – pare che gli si indirizzino anche delle
lettere di approvazione, che egli non vuole leggere, perché non vuole avere nessun rapporto con
coloro che detengono il potere. Tuttavia le legge, perché in fondo coloro che gli scrivono sono
fratelli nella fede, eppure non se ne inorgoglisce. I due discepoli rimangono con lui fino alla sua
morte nel 356 all’età di circa centocinque anni. Anche di lui, come di Paolo, si potrebbe dire che non ne abbiamo grandi testimonianze storiche.
Abbiamo la Vita, scritta da Sant’Atanasio, il grande vescovo di Alessandria, in parte coetaneo del
nostro Antonio, perché è nato nel 295 ed è morto nel 373. Si sente dire a volte che sia stato Atanasio
che ha inventato il personaggio Sant’Antonio, perché vediamo nella Vita delle caratteristiche che
stavano più a cuore ad Atanasio che non ad Antonio, per esempio la predicazione contro gli ariani,
il mettere in guardia gli eremiti contro gli ariani. Non pare che gli ariani siano andati proprio nel
deserto a diffondere le loro teorie tra gli eremiti, ma ne parla, per bocca di Antonio, Atanasio, il
grande campione della fede nicena, esiliato ben cinque volte dalla sua città episcopale per la sua
fedeltà al concilio di Nicea, che nel 325 aveva stabilito la natura divina di Cristo.
Ci sono però anche degli altri riferimenti storici a quest’asceta Antonio, una posterità immediata
che si riferisce a lui, perciò si può dire che la Vita di Antonio, scritta da Atanasio, è un testo
sostanzialmente storico, anche se gli interessi dell’autore l’hanno indotto a sottolineare nella
predicazione e nelle convinzioni di Antonio il sostegno della fede contro l’arianesimo. Di per sé non
ci sarebbe nulla di strano se un uomo di Dio come Antonio difendesse la fede nicena, se nonché
proprio Antonio non aveva studiato, non era un uomo colto. Conosceva la Parola di Dio, ma non
aveva fatto altri studi. Entrare nei dibattiti cristologici sulla natura divina di Cristo, sulle due nature
in una persona, se le volontà sono due o una, è difficile anche per i teologi di oggi. Sull’inserimento
di Antonio in questa lotta può darsi che abbia calcato un po’ la mano Atanasio, ma sostanzialmente
il suo racconto è fedele. I luoghi corrispondono e poi Atanasio non è l’unico che parla di lui, ci sono
altre testimonianze, anche se sono inferiori in importanza in confronto della Vita di Antonio. Per
cui, ritenendolo un testo di valore storico, sia pure agiografico, sia che voglia presentarci non tanto
dei dati e dei fatti, ma il profilo del santo, allora in questa luce dobbiamo accettarlo come
espressione di un quadro storico. Ciò che mette in bocca ad Antonio nei suoi conflitti con il
demonio così frequenti, ciò che egli dice ai discepoli non sarà stato detto forse letteralmente con
quelle parole, ma nella sostanza è veritiero. C’è una certa logica che risalta, perché ha messo per
iscritto quello che i discepoli di Antonio gli avevano raccontato. Questi eremiti si erano stabiliti per
lo più in luoghi dove potevano essere visitati dalla gente dei paesi e villaggi vicini, ricevevano
qualche cosa per vivere, davano qualche piccolo oggetto come segno di riconoscimento e di ricordo.
C’era un certo rapporto di amicizia, per cui si poteva anche venire a sapere qualcosa di loro anche
se non si andava direttamente nella solitudine.
La vita di Antonio prima di esaminarla dal nostro punto di vista è caratterizzata nel deserto dal
combattimento con i demoni, che gli appaiono nelle forme più varie, lo minacciano, gli fanno paura,
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però non riescono a vincerlo: essi vorrebbero dissuaderlo, farlo tornare in città e assumono delle
forme diverse, a volte orribili, a volte allettanti. Ma Antonio ha un segreto di fronte a questi assalti,
quello di nominare la croce di Cristo. Quando egli invoca la croce di Gesù, questi esseri spariscono.
Per trovare qualcosa di simile nella vita di un santo, possiamo pensare ad una figura vicina a noi che
ha subito assalti di questo tipo: Padre Pio, nella cui vita succedevano assalti dai demoni che lo
lasciavano affranto e spossato. Ci sono anche degli episodi che trattano la sua predicazione, contro
gli ariani, ecc., i suoi discorsi e le sue raccomandazioni e una specie di profilo alla fine, dove si
riassume la fisionomia del questo uomo e la conclusione, che parla della morte di Antonio nello
stile dei grandi maestri del pensiero greco come Socrate.
Perché ricercare questa gioia – se c’è – nell’esperienza eremitica? Prima di tutto perché l’esperienza
eremitica è difatti un’esperienza austera, è un rifiuto di ogni accomodamento e condiscendenza.
Ora, c’è spazio per una gioia, se pur dello spirito, all’interno di questi atleti che hanno scelto il
combattimento, viso a viso con il principio del male, il demonio? Non c’è un capitolo specifico
sulla gioia che ha accompagnato Sant’Antonio, però ci sono molti riferimenti, di cui forse Atanasio
non si accorgeva mentre scriveva, ma in molte occasioni la vita di Antonio sottolinea questo
aspetto. La serenità, la tranquillità, il gaudio dello Spirito, la pace regnano attorno a lui, li trasmette
a coloro che vengono da lui, sono caratteristiche della sua vita. Infatti già prima della scelta
eremitica, quando era ancora molto giovane e viveva con i suoi genitori, aveva un comportamento
così nobile ed edificante che non rattristava nessuno, non gareggiava con i suoi compagni, o
gareggiava soltanto per non sembrare inferiori ad essi nel bene. Ma anche gli altri avevano gioia di
lui. Già da giovane è motivo di gioia per i suoi familiari e i suoi compagni. Si comincia ad
intravedere una persona che diffonde la gioia attorno a sé, anche prima della sua conversione.
Naturalmente, il diavolo fu subito invidioso di questo giovane che riusciva a diffondere la gioia
attorno a lui, non lo sopportò e cominciò ad agire contro di lui in modo di dissuaderlo dal suo buon
proposito. Poi Antonio lasciò la città e stava per un po’ di tempo in solitudine nei pressi della città e
“...il Signore diede grazia alle sua parole”, dice l’agiografo. Stava vicino alla città e i cittadini
cristiani venivano a trovarlo “...è così egli consolò molte persone tristi e riconciliò altre che erano
in lite, dicendo a tutti che non dovevano anteporre all’amore per Cristo nulla di quanto si trovava
nel mondo”. “Nulla anteporre a Cristo” è un tema che conosciamo, lo troviamo nella Regola di San
Benedetto. Interessa qui che già nella prima predicazione da giovane eremita egli consola persone
tristi e riconcilia persone in lite e spesso gli asceti, anche gli stiliti, esercitavano questo stesso
carisma e così non poteva essere che motivo di consolazione per coloro che erano tristi.
Quando poi s’inoltra nel deserto, più s’inoltra, più il combattimento con il demonio diventa più
difficile, perché l’avversario del bene fa di tutto per allontanarlo. C’è un passo di Atanasio, in cui
dice: “Che cosa i demoni temono di più negli asceti? Temono i digiuni, le veglie, la preghiera, la
mitezza – l’asceta è un uomo mite – la mansuetudine, la semplicità, la mancanza di finzione, di
desideri di denaro, di potere, l’umiltà dei sentimenti, l’amore per i poveri, le opere di misericordia,
la mancanza dell’ira, ma soprattutto la venerazione per Cristo”. Ed è per questo che quando la
lotta, la tentazione, i disturbi da parte del demonio si fanno più frequenti ed insidiosi, Antonio
invoca il nome di Gesù e la croce, che è segno della salvezza, e i demoni spariscono e si danno per
vinti.
Ma, grazie a Dio, non ci sono solo apparizioni diaboliche e l’eremita è anche confortato da visioni,
da contemplazioni di santi, di misteri della vita del Signore, che sono oggetto della sua preghiera.
C’è però un problema che si pone, quello di distinguere, perché è vero che le visioni diaboliche
sono terrificanti, ma qualche volta si presentano in vesti di persone religiose, devote. Come, allora,
distinguere il santo vero da quello finto? Il criterio per distinguere le visioni buone da quelle cattive
è annunciato in questi termini: “Con loro - i santi - c’è il Signore che è la nostra gioia”. Se la
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visione reca gioia, vuol dire che è una visione che viene da Dio. Sono i santi. Se invece la visione
turba, impressiona, distrae, alletta verso il male, evidentemente, qualunque sia la forma che essa
assume, la visione non viene da Dio. Quindi, anche se a volte gli uomini buoni temono la visione
del soprannaturale, perché si tratta di qualcosa che non è ordinario nella vita di una persona: “Non
temere”. Ecco il senso della gioia che accompagna il santo che viene per consolare. Le visioni dei
santi non causano turbamento, le visioni dei demoni causano turbamento. Le visioni dei santi
causano gioia, lo dice espressamente, ma quelli del nemico causano tristezza.
Tuttavia, concludendo questa fase dei rapporti dell’eremita con il nemico, l’agiografo sottolinea che
è la gioia dell’anima quella che dissolve i giochi dell’avversario. “Come fumo essi fuggono, quando
l’anima dell’asceta si apre alla gioia che viene dal Signore. Se appaiono i santi, danno
soddisfazione alla tua domanda e trasformano il tuo iniziale timore di trovarti davanti ad un essere
superiore in gioia. Se invece si tratta di una potenza diabolica, subito s’indebolirà, vedendo un
animo sicuro e vigoroso. La domanda: «Chi sei tu? Da dove vieni?» è infatti segno di un animo non
turbato”. Nella Vita di Antonio sono frequenti i riferimenti biblici, le citazioni bibliche: direi che
l’unica cultura che appare da questi testi è quella biblica.
Antonio insegna quando lascia la montagna e si porta nella zona, che è a metà strada tra la città e
l’assoluta solitudine. Lì, incontra gli eremiti e svolge il suo insegnamento. Mentre Antonio
esponeva queste cose, i criteri per distinguere una visione buona da una cattiva sopraindicati: “tutti
godevano”. La predicazione di quest’austero eremita provoca gioia. E in tutti cresceva il desiderio
della virtù spirituale, in altri l’animo abbattuto veniva consolato, in altri veniva frenata la superbia.
Gli uditori non sono tutti santi, rappresentano diverse situazioni della vita spirituale. Alcuni hanno
l’animo abbattuto, altri sono tentati di essere piuttosto superbi, ognuno riceve un conforto, ma tutti
ricevono gioia. Tutti godevano dell’insegnamento di Antonio.
C’è una tristezza soltanto che ricorre nella Vita di questo santo: quando non riesce a testimoniare
come vorrebbe la propria fede. O perché chi l’ascolta ha il cuore duro e non si lascia convincere, o
per altre ragioni contingenti, allora il testo dice non che egli era triste, ma “quasi triste”. Perché se
altri opponevano ostacoli alla sua predicazione, evidentemente non era colpa sua, però lo angustiava
un po’, ma come il Signore dice nel vangelo: “La vostra tristezza si cambierà in gioia e nessuno ve
la potrà togliere” (Gv 16,20). E questo rimane il fondamento della gioia di Antonio.
Antonio ora vive sulla montagna con i due discepoli che l’assistono, però ogni tanto si reca in
quell’altro deserto più vicino alla città e al fiume dove ci sono altri eremiti ed egli, nonostante il suo
amore per la solitudine, quando gli altri lo pregano, discende e viene da loro per visitarli,
intrattenendosi con loro. Espone la propria esperienza, risponde alle loro domande e svolge un vero
magistero. Se vogliamo dividere la sua vita in tre parti, dopo la prima parte, l’ascesi e la lotta con il
demonio, c’è questa parte, l’insegnamento di Antonio, i buoni esempi e l’incoraggiamento degli
altri che ci aiutano a capire la visione conclusiva. Questo contatto era necessario anche per il
rifornimento delle riserve di acqua che mancava nel deserto. Quando Antonio giungeva al luogo
degli eremiti tutti guardavano a lui come ad un padre.
Non è che egli si imponga, c’è sempre presente la cultura dell’antico monachesimo, in cui ciò che
conta è il modello. Una volta un eremita si recò da un grande padre del deserto ed espose la sua
situazione: cercava un regolamento per quella parte della vita vissuta in comune con gli altri
eremiti. L’eremita incaricato di stendere il regolamento chiede quindi a quell’anziano come deve
fare. L’anziano risponde: “Non metterti a scrivere regolamenti: sii per loro un modello!” La vita
eremitica si trasmetteva all’inizio non tanto con un regolamento, ma prima di tutto con l’esempio.
Antonio si presentava a loro per intrattenersi e lo guardavano come un maestro, il padre, il modello
a cui guardare e lo salutavano con grande gioia. Ed egli, come se avesse apportato un viatico adatto
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al servizio di Dio, li nutriva con discorsi spirituali e li mise a parte del guadagno che trovava nella
vita solitaria. Fra i monti e nel deserto, cresce l’allegria, cresce la letizia.
Un giorno vede in visione un uomo condotto verso il cielo, un eremita che viveva lontano e che era
morto – è qualcosa che succede spesso nella letteratura monastica. Anche San Benedetto ha una
visione di questo tipo: vede l’anima della sorella Santa Scolastica portata in cielo, non è presente
personalmente alla morte della sorella. Così anche Antonio. Gli angeli e gli spiriti gli vanno
incontro a quest’anima con grande gioia. Antonio viene a sapere che è l’anima di un monaco che
sulle montagne della Nitria aveva condotta una vita ascetica e ora era stato chiamato al premio e
accolto con grande gioia in Paradiso.
Ecco un profilo riassuntivo della figura di Antonio come viene presentato da Atanasio: “Si
distingueva dagli altri, non perché fosse più alto o più robusto, ma faceva questo effetto per la sua
serietà dei costumi, la fermezza e la purezza del suo animo. Essendo la sua anima quieta – quieta,
per chi ha la pazienza a leggere queste traversie, queste lotte, che non lo lasciavano in pace né
giorno né notte, non è certamente una quiete gratuita - anche il suo aspetto restava senza
turbamenti, di modo che la gioia e la letizia dell’anima apparivano sul suo volto. Abitualmente era
di volto ilare – come dice Gregorio di San Benedetto – e i movimenti del corpo lasciava capire la
stabilità del l’animo. «Un cuore lieto rende ilare il volto, ma, quando il cuore è triste, lo spirito è
depresso» (Pr 15,13) Così Samuele riconobbe Davide, infatti aveva «begli occhi ed era gentile
d’aspetto» (1Sam 16,12) così si poteva riconoscere anche Antonio. Come avrebbe potuto turbarsi,
se il suo animo era sempre quieto e sereno, o quando avrebbe potuto essere triste, se la sua mente
era sempre gioiosa?...Non aveva maniere rozze, quest’uomo, che fino alla vecchiaia viveva sul
monte, ma era piacevole, era arguto e la sua parola era condita di sale divino, non invidiava
nessuno, ma aveva gioia per tutti coloro che andavano da lui”. Non dice: “Offriva la pace,
l’amicizia con Dio”, dice: “Dava gioia” e ripete: “...ed essi ritornavano - alle loro occupazioni - con gioia”. Anche i giudici si rivolgono a lui ed egli dà loro consigli e perfino i giudici si rallegrano
di ricevere le sue lettere.
C’è il problema degli ariani, a cui accennavo prima. Chi aderisce all’eresia diventa triste e anche
Antonio rischiava di diventarlo a un certo punto. Ebbe una visione dei “calci dei muli”. In una
chiesa ben ordinata egli vede entrare queste bestie che cominciano a dare calci a destra e a sinistra e
turbano tutti: nessuno può pregare più in quello scenario. La chiesa viene sconvolta. “Questo mi ha
un po’ rattristato”, dice Antonio, “perché è l’effetto che l’eresia produce nella Chiesa: lo
sconvolgimento dei calci dei muli”. Ma dice: “Non siate tristi. Il Signore è adirato da quello che sta
avvenendo per causa degli ariani, ma presto la Chiesa riacquisterà la sua bellezza e ritornerà
ordinata e il momento dell’arianesimo sarà superato”.
Gode infine della sua vita ascetica. Quando Antonio si limitava e pregare e a coltivare gli esercizi
spirituali stando sul monte, ne godeva. Sul monte, da solo godeva della sua vita ascetica e nel
momento del distacco, dice ai due discepoli che gli stavano vicino: “«Ho quasi centocinque anni»
e, come se si avviasse da una città straniera verso la propria, parlava loro, pieno di gioia e di
certezza e raccomandava loro di non cedere alle fatiche e di non scoraggiarsi negli esercizi
spirituali, ma di vivere come se dovessero morire ogni giorno e di emulare i santi”. Anche negli
ultimi contatti con i due fratelli, egli parlava a loro pieno di gioia, anche se avviava alla fine. “E
quando ebbe dette queste parole, essi lo baciarono ed egli sollevò i piedi e guardando come amici
coloro che erano venuti da lui, diventò gioioso per la loro presenza. Aveva un aspetto felice e così
egli mancò e si congiunse ai suoi padri”. Ecco la morte gioiosa di Antonio.
Tutto questo è stato ereditato dalla tradizione monastica, soprattutto perché si coglie la gioia là
dov’è il massimo impegno ascetico e anche nella sofferenza, se lo volete. In tutta la tradizione si
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può cogliere un eco di questa impostazione. Vediamo brevemente la Regola di San Benedetto:
“L’abate deve godere di vedere l’aumento del gregge”(2,32); “I monaci nell’esercizio dell’umiltà,
devono affrontare anche cose contrarie alla natura, eppure vanno avanti, pieni di gioia” (7,39).
Ma dove la gioia trova la sua espressione in conformità alla tradizione ascetica è nel capitolo 49
sulla Quaresima. “Il monaco deve sottrarre al suo corpo un po’ di cibo, un po’ di sonno...” - e lo
offra a Dio - “...e aspetti con gioia” - già nella Quaresima – “la Pasqua con gaudio spirituale”
(v.7) La vita monastica dovrebb’essere un po’ tutta una Quaresima, “...ma almeno durante questi
santi giorni dobbiamo impegnarci di più. (v.2) E qui l’ascesi benedettina diventa un po’ più austera,
parla del sottrarre qualche cosa, ecc. Eppure proprio in questo capitolo parla anche del gaudio
spirituale, del gaudio dello Spirito Santo.
È una costante che rimane nella tradizione del monachesimo. Ci sono anche delle forme di vita
monastica che sono nuove, originali, per esempio, le Fraternità di Gerusalemme, monaci che fanno
parte di un ordine costituito, ma vogliono vivere, laici e laiche, lo spirito monastico. E mi ha
colpito, leggendo la loro regola di vita, questo brano: “La vita fraterna che fa della comunità
riunita nel suo nome un segno vivo della presenza del Signore diventa a sua volta sorgente e
irradiamento di gioia. Ecco quanto è buono e soave, che i fratelli vivano insieme (Sal 132).
L’amore dilata, la fiducia reciproca rasserena, la vita comune rallegra. Dio e gli uomini aspettano
da noi questo irradiamento della presenza trinitaria, come sta scritto: «Rallegratevi nel Signore
sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi – la vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il
Signore è vicino, non angustiatevi per nulla» (Fil 4,4). Vivendo nell’amore provoca in ciascuno
dei tuoi fratelli e in te lo sbocciare della gioia. Diventa con loro la virtù dell’irradiamento della
gioia comunitaria il segno della presenza di Dio, che vuole rinnovarti con il suo amore e danzare
per te, con grida di gioia, come in un giorno di festa. Niente è più triste della discordia, del
sospetto, delle mormorazioni, delle gelosie - sono questi mali, questa gramigna, che può nascere
anche all’interno della comunità monastica - Invece, il perdono, l’aiuto reciproco, la compassione,
l’umiltà sono fonti di gioia. Per vivere nella gioia, viviamo dunque nell’unità, raggiungendo la
pienezza della gioia attraverso l’armonia dei nostri sentimenti. Chiediamo ogni giorno per ogni
membro della nostra comunità la grazia della gioia. Chiedete e riceverete e la vostra gioia sarà
piena”(Gv 16,24). Quindi, vivendo oggi, siamo chiamati a ripresentare l’ideale di Antonio, che
diffondeva gioia pur nella solitudine del suo eremo nelle montagne del Medio Egitto. Mi pare,
dunque, sia importante questa riflessione sulla vita di Antonio, perché egli rappresenta un capo
saldo, che noi ritroviamo come un elemento molto importante della testimonianza monastica. Anche
i nostri fratelli e le nostre sorelle nel mondo di oggi, questa testimonianza di gioia l’aspettano.
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