III DOMENICA DI PASQUA (ANNO C) - VANGELO Secondo Giovanni 21, 1-19; FORMA BREVE (GV 21, 1-14) CON I PADRI DELLA CHIESA
III DOMENICA DI PASQUA (ANNO C)
+Vangelo (Gv 21, 1-19)
Viene Gesù, prende il pane e lo dà loro, così pure il pesce.
+Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 21, 1-19)
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Forma breve:
+Gv 21,1-14
Viene Gesù, prende il pane e lo dà loro,
così pure il pesce.
+Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
La Parola ai Padri della Chiesa
1. Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca
Gesù, mentre nasceva il giorno, stava in
piedi sulla riva: la riva significa la fine del mare, e rappresenta perciò la
fine dei tempi. E ancora immagine della fine dei tempi è il fatto che Pietro
trae la rete a terra, cioè sulla riva. È lo stesso Signore che, in un’altra
circostanza, ci chiarisce il significato di queste immagini parlando della rete
tratta su dal mare: «Ed essi la tirano sulla riva», dice (Mt 13,38). Che cos’è questa riva? Egli
stesso lo spiega poco più avanti: "Sarà così alla fine del mondo"
(Mt 13,49).
Ma in quella circostanza si trattava
soltanto di un racconto sotto forma di parabola, non del significato allegorico
di un fatto reale. Qui, invece, è con un fatto reale che il Signore ci vuole
fare intendere ciò che sarà la Chiesa alla fine del mondo, così come in
un’altra pesca ha raffigurato ciò che è la Chiesa, oggi, in questo mondo (Lc 5,1-11). Il primo miracolo ebbe
luogo all’inizio della sua predicazione; il secondo, che è questo di cui ora ci
occupiamo, si verifica dopo la sua Risurrezione.
Con la prima pesca egli volle significare
i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; con la seconda indica che
la Chiesa, alla fine dei tempi, sarà formata soltanto dei buoni che dopo la
risurrezione dei morti, saranno in lei in eterno.
La prima volta Gesù non stava, come ora,
sulla riva, quando ordinò di prendere i pesci; infatti, "montato su una
barca che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra, e sedendo
nella barca ammaestrava le turbe. Appena finì di parlare, disse a Simone.
Prendi il largo e calate le vostre reti per la pesca" (Lc 5,1-4). E il pesce che allora fu
catturato restò nella barca, perché i pescatori non trassero a riva la rete
come fanno ora.
Tutte queste circostanze e le altre ancora
che si potrebbero trovare, indicano che nella prima pesca è raffigurata la
Chiesa in questo mondo, mentre nella seconda pesca essa è raffigurata quale
sarà alla fine del mondo. È per questo che il primo miracolo Cristo lo compie
prima della Passione, il secondo dopo la Risurrezione: là, Gesù raffigura noi
chiamati alla Chiesa, qui raffigura noi risorti alla vita eterna.
Nella prima pesca la rete non è gettata
solo dal lato destro della barca, a significare la raccolta dei soli buoni, e
neppure soltanto dal lato sinistro a significare la pesca dei soli malvagi.
Gesù non precisa da quale parte si getta la rete: «Calate le vostre reti per la
pesca», dice, per intendere che la Chiesa raccoglie, in questo mondo, i buoni e
i cattivi. Qui invece precisa: «Gettate la rete dal lato destro della barca»,
per significare che debbono essere raccolti solo quelli che stanno a destra,
cioè i buoni.
La prima volta la rete si rompe, immagine
degli scismi che divideranno la Chiesa: qui invece, nella pace suprema di cui
gioiranno i santi, non c’è posto per gli scismi, e perciò l’evangelista
afferma: «E benché i pesci fossero tanti» - cioè grandi e molto numerosi - «la
rete non si strappò». Egli sembra proprio alludere alla prima pesca, quando la
rete si ruppe, per sottolineare con tale paragone la superiorità di questa
pesca nella quale solo i buoni vengono raccolti.
(Agostino, Comment. in Ioan., 122, 6 s.)
2. La prova dell’amore
Vi sia un uomo che digiuna, che vive
castamente, e che soffre infine il martirio, consumato dalle fiamme, e vi sia
un altro che rinvia il martirio per l’edificazione del prossimo e, non solo lo
rinvia ma se ne parte da questo mondo senza averlo subito. Quale di questi due
uomini otterrà maggior gloria, dopo aver lasciato questa vita? Non c’è bisogno
qui di discutere a lungo né di parlare eloquentemente per decidere, dato che il
beato Paolo dà il suo giudizio dicendo: "Morire ed essere con Cristo è
la cosa migliore, ma rimanere nella carne è più necessario per causa vostra"
(Ph 1,23-24). Vedi come l’Apostolo
antepone l’edificazione del prossimo al morire per raggiungere Cristo? Non vi è
infatti mezzo migliore per essere unito a Cristo che il compiere la sua
volontà, e la sua volontà non consiste in nessun’altra cosa come nel bene del
prossimo... "Pietro" - dice il Signore -, "mi ami tu? Pasci
le mie pecore" (Jn 21,15), e, con la triplice domanda
che gli rivolge, Cristo manifesta chiaramente che il pascere le pecore è la
prova dell’amore. E questo non è detto solo ai sacerdoti, ma a ognuno di noi,
per piccolo che sia il gregge affidatoci. Difatti, anche se è piccolo, non si
deve trascurarlo poiché il "Padre mio" - dice il Signore - "si
compiace in loro" (Lc 12,32). Ognuno di noi ha una
pecora. Badiamo di portarla a pascoli convenienti. L’uomo, appena si leva dal
suo letto, non ricerchi altra cosa, sia con le parole sia con le opere, che di
render la sua casa e la sua famiglia più pia. La donna, da parte sua, si
dimostri buona padrona di casa, ma prima ancora di questo abbia un’altra
preoccupazione assai più necessaria, quella cioè che tutta la sua famiglia
lavori e compia quelle opere che riguardano il regno dei cieli. Se infatti
negli affari terreni, prima ancora degli interessi familiari, ci preoccupiamo
di pagare i debiti pubblici perché, trascurando quelli, non ci capiti di essere
arrestati, tradotti in tribunale e svergognati obbrobriosamente, a maggior
ragione, nelle cose spirituali, facciamo in modo di pagare anzitutto ciò che
dobbiamo a Dio, re dell’universo, in modo da non essere gettati là dov’è
stridore di denti.
Ricerchiamo, inoltre, quelle virtù che da
una parte procurano a noi la salvezza e dall’altra sono utilissime al prossimo.
Tali sono l’elemosina, le orazioni; anzi, l’orazione riceve dall’elemosina
forza e ali. "Le tue orazioni" - dice la Scrittura - "e
le tue elemosine sono servite per essere ricordato al cospetto di Dio"
(Ac 10,4). Ma non solo l’orazione,
bensì anche il digiuno riceve dall’elemosina efficacia. Se tu digiuni senza
fare elemosina, la tua azione non può essere digiuno e diventi peggiore di un
ghiottone e di un ubriaco, tanto peggiore quanto la crudeltà è più grave
peccato della gola. Ma perché parlo del digiuno? Anche se tu vivi castamente,
anche se tu conservi la verginità, ma non l’accompagni con l’elemosina, tu
rimani fuori della sala nuziale. Che cosa è paragonabile alla verginità che,
per la sua stessa eccellenza, non fu posta per legge neppure nel Nuovo
Testamento? Tuttavia, anch’essa viene respinta se non è congiunta
all’elemosina. Se, dunque, le vergini sono ricacciate perché non l’hanno
praticata con generosità, chi mai potrà ottenere perdono se trascura di far
elemosina? Nessuno, di certo. Chi non pratica l’elemosina, perirà dunque
sicuramente. Infatti, se nelle cose di questo mondo nessuno vive per se stesso,
ma l’artigiano, il soldato, l’agricoltore, il commerciante svolgono attività
che contribuiscono al bene pubblico e alla comune utilità, molto di più ciò
deve realizzarsi nelle cose spirituali. Vive veramente, soltanto chi vive per
gli altri. Chi invece vive solo per sé, disprezza e non si cura degli altri, è
un essere inutile, non è un uomo, non appartiene alla razza umana. Tu forse mi
dirai a questo punto: Devo allora trascurare i miei affari per occuparmi di
quelli altrui? No, non è possibile che colui che si prende cura degli affari
del prossimo trascuri i propri. Chi cerca l’interesse del prossimo non
danneggia nessuno, ha compassione di tutti e aiuta secondo le proprie
possibilità, non commette frodi, né si appropria di quanto appartiene agli
altri, non dice falsa testimonianza, si astiene dal vizio, abbraccia la virtù,
prega per i suoi nemici, fa del bene a chi gli fa del male, non ingiuria
nessuno, non maledice neppur quando in mille modi è maledetto, ma ripete
piuttosto le parole dell’Apostolo: "Chi è infermo che anch’io non sia
infermo? Chi subisce scandalo che io non ne arda?" (2Co 11,29). Al contrario, se noi
ricerchiamo il nostro interesse non seguirà al nostro l’interesse degli altri.
Convinti, dunque, da quanto è stato detto,
che non è possibile salvarci se non ci interessiamo del bene comune, e
considerando gli esempi del servo che fu separato e di colui che nascose il
talento sotto terra, scegliamo quest’altra via, e conseguiremo anche la vita
eterna, che io auguro a tutti noi di ottenere per la grazia e l’amore di Gesù
Cristo, nostro Signore.
(Crisostomo Giovanni, In
Matth., 77, 6)
3. Mi ami tu?
Ma, prima, il Signore domanda a Pietro ciò
che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza se
Pietro lo ama, e da Pietro altrettante volte si sente rispondere che lo ama; e
altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue
pecore. Alla sua triplice negazione fa riscontro la triplice confessione
d’amore, in modo che la sua parola non obbedisca all’amore meno di quanto ha
obbedito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno
esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu dinanzi alla minaccia di morte.
Sia dunque prova del suo amore pascere il gregge del Signore, come rinnegare il
pastore costituì la prova del suo timore.
Coloro che pascono le pecore di Cristo con
l’intenzione di farne le proprie pecore, si convincano che amano se stessi, non
Cristo; si convincano di essere guidati dal desiderio di gloria, di potere, di
denaro, e non dalla carità, che vuole soltanto obbedire, soccorrere ed essere
gradita a Dio. Contro costoro vigila la parola del Signore così insistentemente
ripetuta, gli stessi che strappavano gemiti all’Apostolo perché cercavano la
propria gloria, non quella di Gesù Cristo (Ph 2,21).
Che vogliono dire infatti le parole: «Mi
ami? Pasci le mie pecore»? È come se, con esse, il Signore dicesse: Se mi ami,
non pensare di pascere le pecore nel tuo interesse; pasci le mie pecore in
quanto sono mie, non come se fossero tue; cerca nel pascerle la mia gloria, non
la tua; cerca di stabilire il mio regno, non il tuo; cura il mio interesse, non
il tuo, se non vuoi essere nel numero di coloro che, in questi tempi
perigliosi, amano se stessi, e che perciò cadono in tutti gli altri peccati che
da tale amore per sé derivano come dal loro principio. L’Apostolo, dopo aver
detto: «Gli uomini invero ameranno se stessi», aggiunge infatti: "Ameranno
il denaro, saranno presuntuosi, superbi, bestemmiatori, disobbedienti ai
genitori, ingrati, scellerati, empi, disamorati, calunniatori, incontinenti,
crudeli, nemici del bene, traditori, protervi, ciechi, amanti più del piacere
che di Dio con la sembianza della pietà, ma privi in realtà della sua virtù"
(2Tm 3,1-5).
Tutte queste colpe derivano, come dalla
loro sorgente, da quella che per prima l’Apostolo ha citato: «amano se
stessi». È dunque con ragione che il Signore chiede a Pietro: «hai dilezione per
me?», e giustamente, alla sua risposta: «Sì, ti amo» egli replica: «Pasci i
miei agnelli»; e giustamente ripete per tre volte tali parole. Vediamo anche,
in questa circostanza, che la dilezione è la stessa cosa che l’amore: la terza
e ultima volta, infatti, il Signore non dice: «hai dilezione per me», ma dice:
«Mi ami?».
Non amiamo noi stessi, ma il Signore: e
nel pascere le sue pecore, cerchiamo ciò che è suo, non ciò che è nostro. Non
so in quale inesplicabile modo accade che, chi ama se stesso e non Dio, non ama
nemmeno sé, mentre chi ama Dio e non ama se stesso, in effetti ama anche sé.
Colui che non ha la vita da se stesso, muore amando sé: quindi non ama se
stesso chi sacrifica la propria vita a questo amore. Colui, invece, che ama il
principio della sua vita, tanto più ama se stesso non amando sé, poiché
trascura sé per amare colui dal quale deriva la propria vita.
Non siano dunque tra quelli che «amano se
stessi», coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie,
ma del Signore...
Tutte queste colpe e le altre simili, sia
che si trovino riunite nello stesso uomo, sia che esercitino separatamente il
loro dominio, alcune su certi uomini, alcune su altri, derivano tutte dalla
stessa radice, cioè dall’amore «per se medesimi». Questo è il pericolo dal
quale, sopra tutto, debbono stare in guardia coloro che pascono le pecore di
Cristo, in modo da non ritrovarsi mai a cercare il proprio interesse invece
dell’interesse di Cristo, o a tentare di trarre soddisfazione dei propri
desideri dalle pecore per la cui salvezza è stato versato il sangue di Cristo.
L’amore per Cristo deve tanto crescere in colui che pasce le sue pecore, sino a
giungere a quell’ardore spirituale che gli farà vincere anche il naturale
timore della morte, in modo che egli saprà morire proprio perché vuole vivere
con Cristo. L’apostolo Paolo ci dice infatti di avere un grande desiderio di
essere sciolto dai vincoli della carne, per ritrovarsi con Cristo (Ph 1,23). Egli geme per il peso di
questo corpo, ma non vuole essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, onde
ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (2Co 5,4).
(Agostino, Comment. in Ioan., 123, 5)
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SANT'AGOSTINO, OMELIA 122 - L'apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade 21,1-11(Jn 20,30).
La pesca miracolosa adombra il mistero della Chiesa, quale sarà dopo la risurrezione dei morti.
1. Dopo averci raccontato come il discepolo Tommaso, attraverso le cicatrici delle ferite che Cristo gli offri' da toccare nella sua carne, vide ciò che non voleva credere e credette, l'evangelista Giovanni inserisce questa osservazione: Molti altri prodigi fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi invece sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e, credendo, abbiate vita nel suo nome (Jn 20,21). Questa è come l'annotazione conclusiva di questo libro; tuttavia si narra ancora come il Signore si manifesto' presso il mare di Tiberiade, e come nella pesca adombro' il mistero della Chiesa quale sarà nella futura risurrezione dei morti. Credo che sia per sottolineare maggiormente questo mistero che Giovanni pose le parole succitate come a conclusione del libro, in quanto servono anche di introduzione alla successiva narrazione, alla quale, in questo modo, dà maggiore risalto. Così comincia la narrazione: Dopo questi fatti, Gesù si manifesto di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade; e si manifesto cosi. Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, e i figli di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli. Dice loro Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono: Veniamo anche noi con te (Jn 21,1-3).
2. Si è soliti chiedersi, a proposito di questa pesca dei discepoli, perché Pietro e i figli di Zebedeo siano tornati all'occupazione che avevano prima che il Signore disse loro: Seguitemi e vi faro pescatori di uomini (Mt 4,19). Allora essi lo seguirono, lasciando tutto, per diventare suoi discepoli. Al punto che, quando quel giovane, al quale aveva detto: Va', vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi, si allontano' triste, Pietro poté dirgli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,21-22; Cf. Mt 27). Perché, dunque, essi ora lasciano l'apostolato e ritornano a essere ciò che erano prima tornando a fare ciò cui avevano rinunciato, quasi non tenendo conto dell'ammonimento che avevano ascoltato dalle labbra del Maestro: Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno dei cieli (Lc 9,62)? Se gli Apostoli avessero fatto questo dopo la morte di Gesù e prima della sua risurrezione, potremmo pensare che essi fossero stati spinti a ciò dallo scoraggiamento che si era impadronito del loro animo. Del resto essi non avrebbero potuto tornare a pescare il giorno in cui Gesù fu crocifisso, perché in quel giorno rimasero totalmente impegnati fino al momento della sepoltura, che avvenne sul far della sera; il giorno seguente era sabato e, secondo la tradizione dei padri, dovevano osservare il riposo; e finalmente nel terzo giorno, il Signore risorto riaccese in loro la speranza che avevano cominciato a perdere. Ora pero', dopo che lo hanno riavuto vivo dal sepolcro, dopo che egli ha offerto ai loro occhi e alle loro mani la realtà evidente della sua carne rediviva, che essi non solo hanno potuto vedere ma anche toccare e palpare; dopo che essi hanno guardato i segni delle sue ferite, e dopo che perfino l'apostolo Tommaso, che aveva detto che non avrebbe creduto se non avesse veduto e toccato, anch'egli ha confessato; dopo che hanno ricevuto lo Spirito Santo, da lui alitato su di essi, e hanno ascoltato le parole: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Jn 20,21; Cf. Jn 23), essi tornano a fare i pescatori, non di uomini ma di pesci.
3. A quanti dunque rimangono perplessi di fronte a questo fatto, si può fare osservare che non era affatto proibito agli Apostoli procurarsi di che vivere con il loro mestiere onesto, legittimo e compatibile con l'impegno apostolico, qualora non avessero avuto altra possibilità per vivere. Nessuno, certo, vorrà pensare o dire che l'apostolo Paolo era meno perfetto di coloro che avevano seguito Cristo lasciando tutto, per il fatto che egli, per non essere di aggravio a quelli che evangelizzava, si guadagnava da vivere con il lavoro delle sue mani (2Th 3,8). Anzi, proprio in questo si nota la verità di quanto asseriva: Ho lavorato più di tutti costoro. E aggiungeva: non già io, bensi' la grazia di Dio con me (1Col 15,10), affinché risultasse evidente che doveva alla grazia di Dio se aveva potuto lavorare più degli altri spiritualmente e materialmente, predicando il Vangelo senza sosta. Egli tuttavia, a differenza degli altri, non si servi' del Vangelo per vivere, mentre lo andava seminando più largamente e con più frutto attraverso tante popolazioni in mezzo alle quali il nome di Cristo non era stato ancora annunziato; dimostrando così che vivere del Vangelo, cioè trarre sostentamento dalla predicazione, non era per gli Apostoli un obbligo ma una facoltà. E' di questa facoltà che parla l'Apostolo quando dice: Se abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse una cosa straordinaria se mietiamo i vostri beni materiali? Se altri si valgono di questo potere su di voi, quanto maggiormente non lo potremmo noi? Ma noi - aggiunge -non abbiamo fatto uso di questo potere. E poco più avanti: Quelli che servono all'altare - dice -partecipano dell'altare. Alla stessa maniera anche il Signore ordino' a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo; quanto a me non ho usato alcuno di questi diritti (1Co 9,11-15). Risulta dunque abbastanza chiaro che il vivere unicamente del Vangelo e mietere beni materiali in compenso dei beni spirituali che seminavano annunziando il Vangelo, era per gli Apostoli non un precetto ma una facoltà: cioè essi potevano accettare il sostentamento materiale e, quali soldati di Cristo, ricevere dai Cristiani il dovuto stipendio, come i soldati lo ricevevano dai Governatori delle province. E' a questo proposito che il medesimo generoso soldato di Cristo poco prima aveva detto: Chi mai si arruola a proprie spese? (1Col 9,7). Tuttavia, proprio questo egli faceva, e perciò lavorava più di tutti gli altri. Se dunque il beato Paolo non volendo usare del diritto che aveva in comune con gli altri predicatori del Vangelo, e volendo militare a sue spese, onde evitare presso i non credenti in Cristo qualsiasi sospetto che il suo insegnamento fosse interessato, imparo' un mestiere non confacente alla sua educazione, per potersi guadagnare il pane con le sue mani e non esser di peso a nessuno dei suoi ascoltatori; perché dobbiamo meravigliarci se il beato Pietro, che già era stato pescatore, torno' al suo lavoro, non avendo per il momento altra possibilità per vivere?
4. Ma qualcuno osserverà: E come mai non aveva altra possibilità per vivere, se il Signore aveva promesso: Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più (Mt 6,33)? Questo episodio sta a dimostrare che il Signore mantiene la sua promessa. Chi altri infatti fece affluire i pesci nella rete perché fossero presi? E' da credere che non per altro motivo li ridusse al bisogno, costringendoli a tornare alla pesca, se non perché voleva che fossero testimoni del miracolo che aveva predisposto per sfamare i predicatori del suo Vangelo, mentre mediante il misterioso significato del numero dei pesci, si proponeva di far crescere il prestigio del Vangelo stesso. E a proposito, vediamo ora che cosa il Signore ha riservato a noi.
5. Dice Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono - quelli che erano con lui -: Veniamo anche noi con te. Uscirono, e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Era ormai l'alba quando Gesù si presento' sulla riva; i discepoli tuttavia non si erano accorti che era Gesù. E Gesù disse loro: Figlioli, non avete qualcosa da mangiare? Gli risposero: No. Ed egli disse loro: Gettate la rete a destra della barca, e ne troverete. La gettarono, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: E' il Signore! Simon Pietro all'udire "è il Signore!" si cinse la veste, poiché era nudo, e si butto' in mare. Gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano lontani da terra se non duecento cubiti circa, tirando la rete con i pesci. Appena messo piede a terra, videro della brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate dei pesci che avete preso adesso. Allora Simon Pietro sali nella barca, e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si strappo (Jn 21,3-11).
6. E' un grande mistero questo, nel grande Vangelo di Giovanni; e, per metterlo maggiormente in risalto, l'evangelista lo ha collocato alla conclusione. Siccome erano sette i discepoli che presero parte a questa pesca: Pietro, Tommaso, Natanaele, i due figli di Zebedeo e altri due di cui si tace il nome; mediante il numero sette stanno ad indicare la fine del tempo. Si, perché tutto il tempo si svolge in sette giorni. A questo si riferisce il fatto che sul far del giorno Gesù si presento' sulla riva: la riva segna la fine del mare, e rappresenta perciò la fine del tempo, la quale è rappresentata anche dal fatto che Pietro trasse la rete a terra, cioè sulla riva. Il Signore stesso, quando espose una parabola della rete gettata in mare, dette questa spiegazione: Una volta piena - disse -i pescatori l'hanno tirata a riva. E spiego' che cosa fosse la riva, dicendo: così sarà alla fine del mondo (Mt 13,48-49).
(Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca)
Ma quella parabola consisteva nell'enunciazione di un pensiero, non veniva espressa mediante un fatto. Qui, invece, è mediante un fatto che il Signore ci presenta la Chiesa quale sarà alla fine del tempo, così come con un'altra pesca ha presentato la Chiesa quale è nel tempo presente. Il fatto che egli abbia compiuto la prima pesca all'inizio della sua predicazione, questa seconda, invece, dopo la sua risurrezione, dimostra che quella retata di pesci rappresentava i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; questa invece rappresenta soltanto i buoni che formeranno definitivamente la Chiesa, quando, alla fine del mondo, sarà compiuta la risurrezione dei morti. Inoltre, nella prima pesca, Gesù non stava, come ora, sulla riva del mare, quando ordino di gettare le reti per la pesca; ma salito in una delle barche, quella che apparteneva a Simone, prego' costui di scostarsi un po' da terra, poi, sedutosi, dalla barca istruiva le folle. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: Va' al largo e calate le reti per la pesca (Lc 5,3-4). E il pesce che allora pescarono fu raccolto nelle barche, perché non furono tirate le reti a terra come avviene ora. Per questi segni, e per altri che si potrebbero trovare, in quella pesca fu raffigurata la Chiesa nel tempo presente; in questa, invece, è raffigurata la Chiesa quale sarà alla fine dei tempi. E' per questo motivo che la prima pesca fu compiuta prima della risurrezione del Signore, mentre questa seconda è avvenuta dopo; perché nel primo caso Cristo raffiguro' la nostra vocazione, nel secondo la nostra risurrezione. Nella prima pesca le reti non vengono gettate solo a destra della barca, a significare solo i buoni, e neppure solo a sinistra, a significare solo i cattivi. Gesù dice semplicemente: Calate le reti per la pesca, per farci intendere che i buoni e i cattivi sono mescolati. Qui invece precisa: Gettate la rete alla destra della barca, per indicare quelli che stavano a destra, cioè soltanto i buoni. Nel primo caso la rete si strappava per indicare le scissioni; nel secondo caso, invece, siccome nella suprema pace dei santi non ci saranno più scissioni, l'evangelista ha potuto rilevare: e benché i pesci fossero tanti -cioè così grossi -la rete non si strappo'. Egli sembra alludere alla prima pesca, quando la rete si strappo', per far risaltar meglio, dal confronto con quella, il risultato positivo di questa pesca. Nel primo caso presero tale quantità di pesce che le due barche, stracariche, affondavano (Lc 5,3-7), cioè minacciavano di affondare: non affondarono, ma poco ci manco'. Donde provengono alla Chiesa tutti i mali che deploriamo, se non dal fatto che non si riesce a tener testa all'enorme massa che entra nella Chiesa con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi e che minacciano di sommergere ogni disciplina? Nel secondo caso, invece, gettarono la rete a destra della barca, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Che significa: non riuscivano più a tirarla? Significa che coloro che appartengono alla risurrezione della vita, cioè alla destra, e finiscono la loro vita nelle reti del cristianesimo, appariranno soltanto sulla riva, cioè alla fine del mondo, quando risorgeranno. Per questo i discepoli non riuscivano a tirare la rete per rovesciare nella barca i pesci che avevano presi, come invece avvenne di quelli per il cui peso la rete si strappo' e le barche rischiarono di affondare. La Chiesa possiede tutti questi pesci che sono a destra della barca, ma che rimangono nascosti nel sonno della pace, come nel profondo del mare, sino alla fine della vita, allorché la rete, trascinata per un tratto di circa duecento cubiti, giungerà finalmente alla riva. Il popolo dei circoncisi e dei gentili, che nella prima pesca era raffigurato dalle due barche, qui è raffigurato dai duecento cubiti - cento e cento quanti sono gli eletti di ciascuna provenienza -, poiché facendo la somma, il numero cento passa a destra. Infine, nella prima pesca, non si precisa il numero dei pesci, e noi possiamo vedere in ciò la realizzazione della profezia che dice: Voglio annunziarli e parlarne, ma sono tanti da non potersi contare (Ps 39,6); qui invece si possono contare: il numero preciso è centocinquantatré. Dobbiamo, con l'aiuto del Signore, spiegare il significato di questo numero.
(Significato del numero 153.)
Volendo esprimere la legge mediante un numero, qual è questo numero se non dieci? Sappiamo con certezza che il Decalogo, cioè i dieci comandamenti furono per la prima volta scritti col dito di Dio su due tavole di pietra (Dt 9,10). Ma la legge, senza l'aiuto della grazia, ci rende prevaricatori, e rimane lettera morta. E' per questo che l'Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito vivifica (2Col 3,6). Si unisca dunque lo spirito alla lettera, affinché la lettera non uccida coloro che non sono vivificati dallo spirito; ma siccome per poter adempiere i comandamenti della legge, le nostre forze non bastano, è necessario l'aiuto del Salvatore. Quando alla legge si unisce la grazia, cioè quando alla lettera si unisce lo spirito, al dieci si aggiunge il numero sette. Il numero sette, come attestano i venerabili documenti della sacra Scrittura, è il simbolo dello Spirito Santo. Infatti, la santità o santificazione è attribuita propriamente allo Spirito Santo; per cui, anche se il Padre è spirito e il Figlio è spirito (in quanto Dio è spirito: Jn 4,24) ed anche se il Padre è santo e il Figlio è santo, tuttavia lo Spirito di ambedue si chiama con suo proprio nome Spirito Santo. E dov'è che per la prima volta nella legge si parla di santificazione, se non a proposito del settimo giorno? Dio infatti non santifico' il primo giorno in cui creo' la luce, né il secondo in cui creo' il firmamento, né il terzo in cui separo' il mare dalla terra e la terra produsse alberi e piante, né il quarto in cui furono create le stelle, né il quinto in cui Dio fece gli animali che si muovono nelle acque e che volano nell'aria, e neppure il sesto in cui creo' gli animali che popolano la terra e l'uomo stesso; santifico', invece, il settimo giorno, in cui egli riposo' dalle sue opere (Gn 2,3). Giustamente, quindi, il numero sette è il simbolo dello Spirito Santo. Anche il profeta Isaia dice: Riposerà in lui lo Spirito di Dio; passando poi ad esaltarne l'attività e i suoi sette doni, dice: Spirito di sapienza e d'intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà dello spirito del timore di Dio (Is 11,2-3). E nell'Apocalisse non si parla forse dei sette spiriti di Dio (Ap 3,1), pur essendo unico e identico lo Spirito che distribuisce i suoi doni a ciascuno come vuole (1Co 12,11)? Ma l'idea dei sette doni dell'unico Spirito è venuta dallo stesso Spirito, che ha assistito lo scrittore sacro perché dicesse che sette sono gli spiriti. Ora, se al numero dieci, proprio della legge, aggiungiamo il numero sette, proprio dello Spirito Santo, abbiamo diciassette. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato centocinquantatré: se infatti a uno aggiungi due ottieni tre, se aggiungi ancora tre e poi quattro ottieni dieci, se poi aggiungi tutti i numeri che seguono fino al diciassette otterrai il risultato sopraddetto; cioè se al dieci, che hai ottenuto sommando tutti i numeri dall'uno al quattro, aggiungi il cinque, ottieni quindici; aggiungi ancora sei e ottieni ventuno; aggiungi il sette e avrai ventotto; se al ventotto aggiungi l'otto, il nove e il dieci, avrai cinquantacinque; aggiungi ancora undici, dodici e tredici, e sei a novantuno; aggiungi ancora quattordici, quindici e sedici, e avrai centotrentasei; e se a questo numero aggiungi quello che resta, cioè quello che abbiamo trovato all'inizio, il diciassette, avrai finalmente il numero dei pesci che erano nella rete. Non si vuol dunque indicare, col centocinquantatré, che tale è il numero dei santi che risorgeranno per la vita eterna, ma le migliaia di santi partecipi della grazia dello Spirito Santo. Questa grazia si accorda con la legge di Dio come con un avversario, affinché la lettera non uccida ciò che lo Spirito vivifica, e in tal modo, con l'aiuto dello Spirito, si possa compiere ciò che per mezzo della lettera viene comandato, e sia perdonato quanto non si riesce a compiere. Quanti partecipano di questa grazia sono indicati da questo numero, cioè vengono rappresentati in figura. Questo numero è, per di più, formato da tre volte il numero cinquanta con l'aggiunta di tre, che significa il mistero della Trinità; il cinquanta poi è formato da sette per sette più uno, dato che sette volte sette fa quarantanove. Vi si aggiunge uno per indicare che è uno solo lo Spirito che si manifesta attraverso l'operazione settenaria; e sappiamo che lo Spirito Santo fu mandato sui discepoli, che lo aspettavano secondo la promessa che loro era stata fatta, cinquanta giorni dopo la risurrezione del Signore (cf. Act 2,2-4; Act 1,4).
Con ragione dunque l'evangelista dice che i pesci erano grossi e tanti, e precisamente centocinquantatré. Egli dice infatti: e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Il Signore, dopo aver detto: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento (Mt 5,17), con l'intenzione di dare lo Spirito Santo che consentisse di adempiere la legge (come aggiungendo il sette al dieci), poco dopo dice: Chi, dunque, violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, e insegnerà agli uomini a far lo stesso, sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi, invece, li avrà praticati e insegnati, sarà considerato grande nel regno dei cieli (Mt 5,19). Quest'ultimo potrà far parte del numero dei grossi pesci. Il minimo invece, che distrugge con i fatti ciò che insegna con le parole, potrà far parte di quella Chiesa che viene raffigurata nella prima pesca, fatta di buoni e di cattivi, perché anch'essa viene chiamata regno dei cieli. Il regno dei cieli - dice il Signore -è simile a una gran rete gettata in mare e che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47). Con questo vuole intendere tanto i buoni quanto i cattivi, che dovranno essere separati sulla riva, cioè alla fine del mondo. Inoltre, per far vedere che quelli che chiama minimi, cioè coloro che vivendo male distruggono il bene che insegnano con le parole, sono dei reprobi e quindi saranno completamente esclusi dal regno dei cieli, dopo aver detto: sarà considerato minimo nel regno dei cieli, immediatamente aggiunge: poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). Scribi e farisei sono quelli che siedono sulla cattedra di Mosè, e a proposito dei quali egli dice: Fate quello che vi dicono, non vi regolate sulle loro opere: dicono, infatti, e non fanno (Mt 23,2-3); distruggono con i costumi quanto insegnano con le parole. Di conseguenza, chi è minimo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa del tempo presente, non entrerà nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa futura, perché, insegnando ciò che poi trasgredisce, non potrà far parte della società di coloro che fanno ciò che insegnano. Costui, perciò, non farà parte del numero dei grossi pesci, in quanto solo chi farà e insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. E siccome sarà stato grande qui in terra, potrà essere anche là dove l'altro, il minimo, non potrà essere. La grandezza di coloro che qui sono grandi, lassù sarà tale, che il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti (Mt 11,11). Tuttavia, coloro che qui sono grandi, coloro cioè che nel regno dei cieli, dove la rete raccoglie buoni e cattivi, compiono il bene che insegnano, saranno ancora più grandi nel regno eterno dei cieli; essi, che sono destinati alla risurrezione della vita, sono raffigurati nei pesci pescati dal lato destro della barca. Segue il racconto della colazione che il Signore consumo' con questi sette discepoli, e di cio' che egli disse subito dopo, e infine della conclusione di questo Vangelo. Di tutto questo parleremo, se Dio vorrà; ma non possiamo farlo entrare in questo discorso.
(La triplice confessione di Pietro).
Alla triplice negazione corrisponde la triplice confessione. Sia prova d'amore pascere il gregge del Signore, come fu indizio di timore rinnegare il Pastore.
1. Il Vangelo dell'apostolo Giovanni si conclude con la terza apparizione del Signore ai suoi discepoli dopo la risurrezione. Ci siamo soffermati, come abbiamo potuto, sulla prima parte, fino al momento in cui l'evangelista racconta che furono pescati centocinquantatré pesci da parte dei discepoli ai quali Gesù si manifesto', e che la rete, sebbene i pesci fossero grossi, non si strappo'. Dobbiamo ora esaminare ciò che segue, e spiegare, con l'aiuto del Signore, quanto esige una attenzione maggiore. Terminata dunque la pesca, dice loro Gesù: Venite a far colazione. E nessuno dei discepoli osava domandargli: Chi sei? sapendo che era il Signore (Jn 21,12). Se lo sapevano, che bisogno c'era di domandarglielo? E se non c'era bisogno, perché l'evangelista dice: non osavano, come se avessero bisogno di farlo ma non osassero per timore di qualche cosa? Ecco il senso di queste parole: tanta era l'evidenza della verità nella quale Gesù si manifestava ai discepoli, che nessuno di loro osava, nonché negarla, neppure metterla in dubbio. Se qualcuno infatti avesse avuto qualche dubbio, avrebbe dovuto fargli delle domande. L'evangelista dicendo: nessuno osava domandargli: Chi sei?, è come se dicesse: nessuno osava dubitare che fosse lui.
(Il pesce simbolo di Cristo.)
2. Gesù si avvicina, prende il pane, lo porge ad essi, e così il pesce (Jn 21,13). Ecco che l'evangelista ci dice in che cosa consisteva la loro colazione, della quale vogliamo dire qualcosa di soave e salutare, se egli si degnerà ammettere anche noi a questo banchetto. Nella narrazione precedente Giovanni dice che i discepoli, scesi a terra, vedono della brace con del pesce sopra, e del pane (Jn 21,9). Non si deve pensare che anche il pane stesse sopra la brace, ma vi si deve sottintendere solo il verbo vedono. Se ripetiamo il verbo dov'è sottinteso, l'intera frase suona così: Vedono della brace con del pesce sopra, e vedono del pane; o meglio: Vedono preparata della brace con sopra del pesce, e vedono anche del pane. Su invito del Signore, portano anche del pesce che essi hanno preso; e quantunque l'evangelista non dica che essi lo abbiano fatto, tuttavia dice espressamente che il Signore dette loro quest'ordine. Il Signore infatti disse: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso (Jn 21,10). Chi può pensare che i discepoli non abbiano obbedito al suo ordine? La colazione che il Signore preparo' ai sette discepoli, si componeva dunque del pesce che essi avevano visto sopra la brace, e al quale egli aggiunse alcuni pesci di quelli che essi avevano preso, e del pane che, come narra l'evangelista, essi avevano veduto sulla riva. Il pesce arrostito è il Cristo sacrificato; egli è anche il pane disceso dal cielo (Jn 6,41); a lui viene incorporata la Chiesa per partecipare della sua eterna beatitudine. E' per questo che il Signore aveva detto: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso, affinché quanti nutriamo questa speranza, per mezzo di sette discepoli, nei quali in questo passo si può ravvisare l'universalità dei fedeli, prendessimo coscienza di essere in comunione con così grande sacramento e di essere partecipi della medesima beatitudine. E' con questa colazione del Signore con i suoi discepoli che Giovanni, sebbene avesse da dire molte altre cose di Cristo, conclude il suo Vangelo, rapito, credo, nella contemplazione di sublimi realtà. Qui infatti, nella pesca dei centocinquantatré pesci, viene adombrata la Chiesa quale essa si manifesterà quando sarà formata soltanto dai buoni; e questa colazione è l'annuncio, per quanti credono, sperano e amano, della loro partecipazione a così grande beatitudine.
3. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo la sua risurrezione dai morti (Jn 21,14). Questo tre non si deve riferire tanto al numero delle apparizioni di Gesù, quanto ai giorni in cui esse ebbero luogo. La prima ebbe luogo il primo giorno in cui Gesù risuscito'; la seconda otto giorni dopo, quando il discepolo Tommaso vide e credette; la terza è oggi in cui opera questo miracolo dei pesci. L'evangelista pero' non dice quanti giorni dopo ebbe luogo questa apparizione. Se contiamo il numero delle apparizioni, vediamo che nel primo giorno non si manifesto' una sola volta, come attestano concordemente tutti e quattro gli evangelisti; ma, come si è detto, Giovanni non conta il numero delle apparizioni, ma i giorni in cui egli apparve, per cui risulta che il terzo giorno è quello della pesca. Come prima apparizione dobbiamo considerare, quasi un tutt'uno, quelle avvenute nel giorno della risurrezione, anche se il Signore è apparso più volte, e a più persone; la seconda otto giorni dopo; e questa è la terza. Successivamente si manifesto' tutte le volte che volle sino al quarantesimo giorno nel quale ascese al cielo, anche se non sono state registrate tutte.
(Conclusione della vicenda di Pietro.)
4. Quand'ebbero fatto colazione, Gesù dice a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami più di questi? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami tu? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro si rattristo' che per la terza volta Gesù gli dicesse: Mi vuoi bene? E rispose: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi da te stesso, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio (Jn 21,15-19). Così chiuse la vita terrena l'apostolo che lo aveva rinnegato e lo amava. La presunzione lo aveva innalzato, il rinnegamento lo aveva umiliato, le lacrime lo avevano purificato; supero' la prova della confessione, ottenne la corona del martirio. E così ottenne, nel suo perfetto amore, di poter morire per il nome del Signore, insieme al quale, con disordinata impazienza, si era ripromesso di morire. Sostenuto dalla risurrezione del Signore, egli farà quanto nella sua debolezza aveva prematuramente promesso. Bisognava infatti che prima Cristo morisse per la salvezza di Pietro, perché Pietro a sua volta potesse morire per la predicazione di Cristo. Del tutto intempestivo fu quanto aveva intrapreso l'umana presunzione, dato che questo ordine era stato stabilito dalla stessa verità. Pietro credeva di poter dare la sua vita per Cristo (Jn 13,37): colui che doveva essere liberato sperava di poter dare la sua vita per il suo liberatore, mentre Cristo era venuto per dare la sua vita per tutti i suoi, tra i quali era anche Pietro. Ed ecco che questo è avvenuto. Ora ci è consentito di affrontare per il nome del Signore anche la morte con fermezza d'animo, con quella vera che egli stesso dona, non con quella falsa che nasce dalla nostra vana presunzione. Noi non dobbiamo più temere la perdita di questa vita, dal momento che il Signore, risorgendo, ci ha offerto in se stesso la prova dell'altra vita. Ora è il momento, Pietro, in cui non devi temere più la morte, perché è vivo colui del quale piangevi la morte, colui al quale, nel tuo amore istintivo, volevi impedire di morire per noi (Mt 16,21-22). Tu hai preteso di precedere il condottiero, e hai avuto paura del suo persecutore; ora che egli ha pagato il prezzo per te, è il momento in cui puoi seguire il redentore, e seguirlo senza riserva fino alla morte di croce. Hai udito la parola di colui che ormai hai riconosciuto verace; predisse che lo avresti rinnegato, ora predice la tua passione.
5. Ma prima il Signore domanda a Pietro ciò che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza, se Pietro gli vuol bene; e altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue pecore. Così alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d'amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all'amore meno di quanto ha servito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu di fronte alla minaccia della morte. Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore, come fu indice di timore negare il pastore. Coloro che pascono le pecore di Cristo con l'intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l'obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l'Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Ph 2,21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d'ogni male. L'Apostolo infatti, dopo aver detto: Vi saranno uomini amanti di se stessi, così prosegue: saranno amanti del denaro, vanagloriosi, arroganti, bestemmiatori, disobbedienti ai genitori, ingrati, scellerati, empi, senz'amore, calunniatori, incontinenti, spietati, non amanti del bene, traditori, protervi, accecati dai fumi dell'orgoglio, amanti del piacere più che di Dio; gente che ha l'apparenza di pietà, ma che ne ha rinnegato la forza (2Tm 3,1-5). Tutti questi mali derivano, come da loro fonte, da quello che per primo l'Apostolo ha citato: saranno amanti di se stessi. Giustamente il Signore chiede a Pietro: Mi ami tu?, e alla sua risposta: Certo che ti amo, egli replica: Pasci i miei agnelli; e questo, una seconda e una terza volta. Dove anche si dimostra che amare (diligere) è lo stesso che voler bene (amare); l'ultima volta, infatti, il Signore non dice: Mi ami?, ma: Mi vuoi bene? Non amiamo dunque noi stessi, ma il Signore, e nel pascere le sue, pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi. Non so in quale inesplicabile modo avvenga che chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso, mentre chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso. Poiché chi non può vivere di se stesso, non può non morire amando se stesso: non ama dunque se stesso, chi si ama in modo da non vivere. Quando invece si ama colui da cui si ha la vita, non amando se stesso uno si ama di più, appunto perché invece di amare se stesso ama colui dal quale attinge la vita. Non siano dunque amanti di se stessi coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie, ma come di Cristo. E non cerchino di trarre profitto da esse, come fanno gli amanti del denaro; né di dominarle come i vanagloriosi o vantarsi degli onori che da esse possono ottenere, come gli arroganti; né come i bestemmiatori presumere di sé al punto da creare eresie; né, come i disobbedienti ai genitori, siano indocili ai santi padri; né, come gli ingrati, rendano male per bene a quanti vogliono correggerli per salvarli; né, come gli scellerati, uccidano l'anima propria e quella degli altri; né come gli empi, strazino le viscere materne della Chiesa; né, come i disamorati, disprezzino i deboli; né, come i calunniatori, attentino alla fama dei fratelli; né, come gli incontinenti, si dimostrino incapaci di tenere a freno le loro perverse passioni; né, come gli spietati, siano portati a litigare; né, come chi è senza benignità, si dimostrino incapaci a soccorrere; né, come fanno i traditori, rivelino agli empi ciò che si deve tenere segreto; né, come i procaci, turbino il pudore con invereconde esibizioni; né, come chi è accecato dai fumi dell'orgoglio, si rendano incapaci d'intendere quanto dicono e sostengono (1Tm 1,7); né, come gli amanti del piacere più che di Dio, antepongano i piaceri della carne alle gioie dello spirito. Tutti questi e altri simili vizi, sia che si trovino riuniti in uno stesso uomo, sia che si trovino sparsi qua e là, pullulano tutti dalla stessa radice, cioè dall'amore egoistico di sé. Il male che più d'ogni altro debbono evitare coloro che pascono le pecore di Cristo, è quello di cercare i propri interessi, invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle proprie cupidigie coloro per i quali fu versato il sangue di Cristo. L'amore per Cristo deve, in colui che pasce le sue pecore, crescere e raggiungere tale ardore spirituale da fargli vincere quel naturale timore della morte a causa del quale non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Lo stesso Apostolo ci dice infatti che brama essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (cf. Ph 1,23). Egli geme sotto il peso del corpo, ma non vuol essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, affinché ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (2Co 5,4). E il Signore a Pietro che lo amava predisse: quando sarai vecchio stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio. Stenderai le tue mani, dice il Signore, cioè sarai crocifisso; ma per giungervi un altro ti cingerà e ti porterà non dove tu vuoi, ma dove tu non vorresti. Prima predice il fatto, poi il modo. Non è dopo la crocifissione, ma quando lo portano alla croce che Pietro è condotto dove non vorrebbe; perché una volta crocifisso, non è più condotto dove non vorrebbe, ma al contrario, va dove desidera andare. Egli desiderava essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, ma, se fosse stato possibile, avrebbe voluto entrare nella vita eterna evitando le angosce della morte. E' contro il suo volere che lo costringono a subire queste angosce, mentre è secondo il suo desiderio che ne viene liberato. Egli va alla morte con ripugnanza, e la vince secondo il suo desiderio, e si libera dal timore della morte, talmente naturale che neppure la vecchiaia vale a liberarne Pietro, tanto che di lui dice il Signore: Quando sarai vecchio, verrai portato dove tu non vorresti. Per nostra consolazione il Salvatore stesso volle provare in sé anche questo sentimento, dicendo: Padre, se è possibile passi da me questo calice (Mt 26,39), lui che era venuto proprio per morire, e per il quale la morte non era una necessità, ma un atto della sua volontà, e in suo potere era dare la sua vita e riprenderla di nuovo. Ma per quanto grande sia l'orrore per la morte, deve essere vinto dalla forza dell'amore verso colui che, essendo la nostra vita, ha voluto sopportare per noi anche la morte. Del resto, se la morte non comportasse alcun orrore, non sarebbe grande, com'è, la gloria dei martiri. Se il buon pastore, che offri la sua vita per le sue pecore (Jn 10,18; Jn 11), ha potuto suscitare per sé tanti martiri da queste medesime pecore, con quanto maggiore ardore devono lottare per la verità fino alla morte, e fino a versare il proprio sangue combattendo contro il peccato, coloro ai quali il Signore affido' le sue pecore da pascere, cioè da formare e da guidare? E, di fronte all'esempio della sua passione, chi non vede che i pastori debbono stringersi maggiormente al Pastore e imitarlo, proprio perché già tante pecore hanno seguito l'esempio di lui, cioè dell'unico Pastore sotto il quale non c'è che un solo gregge, e nel quale anche i pastori sono pecore? Egli ha fatto sue pecore tutti coloro per i quali accetto' di patire, e al fine di patire per tutti si è fatto egli stesso pecora.
OMELIA 124
(Jn 21,19-25)
Tu seguimi! La Chiesa sa che le sono state raccomandate dal Signore due vite: una nella fede, l'altra nella visione; una peregrinante, l'altra gloriosa; una in cammino, l'altra in patria. Una rappresentata dall'apostolo Pietro, l'altra da Giovanni.
1. Perché il Signore, quando si manifesto' per la terza volta ai discepoli, disse all'apostolo Pietro: Tu seguimi, mentre riferendosi all'apostolo Giovanni disse: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Non è una questione da poco. Al suo esame e, nella misura che il Signore ci concede, alla sua soluzione dedichiamo l'ultimo discorso di questa nostra trattazione. Dopo aver dunque predetto a Pietro con qual genere di morte avrebbe glorificato Dio, il Signore gli dice: Seguimi. Pietro, voltatosi, vede venirgli appresso il discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si chino' sul suo petto e disse: Signore, chi è che ti tradisce? Pietro dunque vedendolo, dice a Gesù: Signore, e lui? Gesù gli risponde: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; ma Gesù non gli disse: non muore, ma: se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa (Jn 21,19-23). Ecco in quali termini il Vangelo pone questa questione, la cui profondità impegna non superficialmente la mente di chi la consideri. Perché a Pietro, e non agli altri che si trovavano insieme con lui, il Signore dice: Seguimi? Senza dubbio anche gli altri discepoli lo seguivano come maestro. Che se poi si dovesse intendere che Gesù volesse riferirsi al martirio, forse fu soltanto Pietro a patire per la verità cristiana? Non c'era forse tra quei sette l'altro figlio di Zebedeo, il fratello di Giovanni, che dopo l'ascensione del Signore fu ucciso da Erode? Si potrà osservare che, siccome Giacomo non fu crocifisso, giustamente soltanto a Pietro il Signore dice: seguimi, in quanto egli ha affrontato non solo la morte, ma, come Cristo, la morte di croce. Accettiamo questa interpretazione, se non è possibile trovarne una migliore. Ma perché, riferendosi a Giovanni, il Signore dice: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? e poi ripete: Tu seguimi, quasi non voleva che anche l'altro lo seguisse, in quanto voleva che restasse fino al suo ritorno? Come interpretare queste parole in modo diverso da come le hanno interpretate i fratelli allora presenti, che cioè quel discepolo non sarebbe morto, ma sarebbe rimasto in questa vita fino al ritorno del Signore? Tuttavia, lo stesso Giovanni rifiuta questa conclusione, dichiarando apertamente che non era questo il pensiero del Signore. Perché infatti avrebbe soggiunto: Gesù non gli disse: non muore, se non perché non rimanesse nel cuore degli uomini una errata interpretazione?
2. Ma chi vuole può insistere nel dire che è vero quanto dice Giovanni, che cioè il Signore non aveva affermato che quel discepolo non sarebbe morto, ma che, tuttavia, tale è il senso delle parole, che, come narra l'evangelista, Gesù disse a Pietro. Chi dice questo arriva a sostenere che l'apostolo Giovanni vive tuttora, e che, nella sua tomba che si trova ad Efeso, egli giace addormentato, non morto. Costoro adducono come prova il fatto che in quel luogo la terra si solleva insensibilmente, e sembra quasi ribollire, e con sicurezza e ostinazione sostengono che tale fenomeno è dovuto al suo respiro. Non manca chi lo crede, come non manca chi sostiene che anche Mosè vive tuttora, in quanto sta scritto che non si conosce il luogo della sua sepoltura (Dt 34,6), e si sa che apparve col Signore sul monte assieme ad Elia (Mt 17,3), del quale si legge che non morì ma fu rapito in cielo (cf. 2Re 2,11). Essi dicono questo come se il corpo di Mosè non avesse potuto esser sepolto in un luogo sconosciuto agli uomini del suo tempo, e non avesse potuto risuscitare in un dato momento grazie alla potenza divina, quando insieme con Elia fu veduto accanto a Cristo; così come temporaneamente risuscitarono molti corpi di santi al momento della passione di Cristo e, come sta scritto, apparvero a molti nella città santa dopo la sua risurrezione (Mt 27,52-53). Tuttavia, se taluni, come dicevo, affermano che Mosè vive ancora, sebbene la Scrittura, che pure dice che non si conosce il luogo della sua tomba, attesti chiaramente che egli morì, è tanto più comprensibile che, basandosi su queste parole del Signore: Voglio che lui rimanga finché io venga, qualcuno creda che Giovanni non è morto ma dorme sotto terra. Qualcuno giunge a dire (come si legge in certi scritti apocrifi) che l'evangelista si fece costruire una tomba, e, quando, pur essendo egli in perfetta salute, la fossa fu scavata e la tomba preparata con ogni cura, egli vi si adagiò come in un letto, e subito spirò. Sarà per questo che quanti interpretano così le parole del Signore, ritengono che non sia morto, ma si sia adagiato come un morto, e, considerato morto, sia stato sepolto mentre dormiva, e così rimanga fino al ritorno di Cristo; e che egli sia rimasto vivo ne sarebbe prova il movimento della terra, che, a quanto si dice, si solleva dal profondo fino alla superficie del tumulo, sotto l'effetto della sua respirazione. Non è il caso di stare a combattere questa credenza; quelli che conoscono il luogo vadano ad accertarsi se la terra si solleva realmente da se stessa, oppure per effetto di qualche altra causa: la verità è che questo fatto mi è stato riferito da persone attendibili.
3. Lasciamo per ora questa opinione, che non possiamo confutare con prove sicure, per evitare, se non altro, che ci venga chiesto perché la terra sembra in qualche modo vivere e respirare sopra un cadavere sepolto. Ma forse che si risolve questa grossa questione, supponendo che per un miracolo, quale l'Onnipotente può compiere, un corpo vivo può rimanere addormentato tanto a lungo sotto terra in attesa della fine del mondo? Questa supposizione, anzi, rende la questione più difficile e più imbarazzante. Perché, infatti, Gesù avrebbe accordato al discepolo, che prediligeva tanto da permettergli di chinarsi sul suo petto, come straordinario privilegio un sonno così prolungato, mentre ha liberato il beato Pietro (per mezzo dell'insigne gloria del martirio) dal peso del corpo, concedendogli la grazia che l'apostolo Paolo dice di aver tanto desiderato e cioè di essere sciolto da questo corpo per essere con Cristo (Ph 1,23)? Se invece -ciò che è più credibile - san Giovanni fa notare che il Signore non disse: non morirà, proprio perché non gli si attribuisse una simile interpretazione delle parole del Signore; e se il suo corpo giace esanime nella tomba come quello di tutti gli altri morti, e se risponde a verità la notizia che la terra sulla sua tomba si solleva e si abbassa, rimane da decidere se tale fenomeno si verifica per onorare la morte gloriosa, in quanto essa non è stata resa gloriosa dal martirio (Giovanni infatti non fu ucciso dai persecutori per la sua fede), oppure per qualche altro motivo che a noi sfugge. Rimane tuttavia da chiarire la ragione per la quale il Signore, riferendosi ad un uomo che sarebbe morto, disse: Voglio che rimanga finché io venga.
4. Ma chi non sentirà il bisogno di chiedersi, a proposito di questi due apostoli, Pietro e Giovanni, come mai il Signore prediligeva Giovanni, dal momento che era Pietro ad amare di più il Signore? Ogni qualvolta infatti Giovanni parla di sé, tace il proprio nome, e per far capire che si tratta di lui, mette questa indicazione: il discepolo che Gesù amava, come se Gesù amasse lui solo, per distinguersi con questa indicazione dagli altri, tutti certamente da Gesù amati. Che altro vuol farci intendere, con questa espressione, se non che egli era il prediletto? Lungi da noi ogni dubbio circa tale affermazione. E, del resto, quale maggiore prova poteva Gesù dare della sua predilezione all'uomo che insieme agli altri condiscepoli era partecipe della grazia sublime della salvezza, se non quella di concedergli di riposare sul petto del Salvatore stesso? Quanto al fatto che l'apostolo Pietro abbia amato Cristo più degli altri, ci sono molte prove che lo dimostrano. Senza andarle a cercare troppo lontano, risulta in modo abbastanza evidente nel discorso precedente, allorché il Signore gli rivolse la domanda: Mi ami più di questi? (Jn 21,15). Il Signore certamente lo sapeva, e tuttavia glielo domanda, in modo che anche noi, che leggiamo il Vangelo, conoscessimo, attraverso la domanda dell'uno e la risposta dell'altro, l'amore di Pietro per il Signore. Il fatto pero' che Pietro abbia risposto: Si, ti amo, senza aggiungere che lo amava più degli altri, dimostra che Pietro ha risposto ciò che sapeva di se stesso. Non poteva sapere infatti quanto lo amassero gli altri, dato che non poteva vedere nel loro cuore. Pero' con le parole precedenti: Signore, tu sai tutto (Jn 21,16), chiaramente lascia capire che il Signore sapeva già che cosa avrebbe risposto Pietro alla sua domanda. Il Signore dunque sapeva non solo che lo amava, ma anche che lo amava più degli altri. Ebbene, se ci domandiamo quale sia il migliore tra questi due apostoli, colui che amava di più Cristo o colui che lo amava di meno, chi esiterà a rispondere che migliore era colui che lo amava di più? E ancora, se ci domandiamo quale sia il migliore tra questi due apostoli, colui che era amato di più da Cristo, o colui che lo era di meno, non possiamo non rispondere che migliore era colui che più era amato da Cristo. Nel primo caso si antepone Pietro a Giovanni, nel secondo Giovanni a Pietro; perciò propongo un altro confronto: chi è il migliore tra questi due discepoli: quello che ama Cristo meno del suo condiscepolo e più del suo condiscepolo è amato da Cristo, oppure quello che è amato da Cristo meno del suo condiscepolo benché più del suo condiscepolo ami Cristo? Qui la risposta tarda a venire e la difficoltà è aumentata. Per quanto so io, risponderei cosi: è migliore colui che ama di più Cristo, mentre è più felice colui che da Cristo è più amato. Con tale risposta pero' non riesco a vedere come si possa difendere il modo di agire del nostro Liberatore, che sembra amare meno chi lo ama di più, e amare di più chi lo ama di meno.
(Le due vite.)
1 Cerchero' dunque, contando sulla misericordia manifesta di colui la cui giustizia è così nascosta, di risolvere una questione tanto ardua con le forze che egli stesso vorrà concedermi. Finora, infatti, l'abbiamo esposta, ma non risolta. E come premessa alla soluzione che cerchiamo, ricordiamoci che noi conduciamo una vita misera in questo corpo mortale che appesantisce l'anima (Sg 9,15). Quanti pero' siamo già redenti per mezzo del Mediatore e abbiamo lo Spirito Santo come pegno, abbiamo nella speranza la vita beata, anche se non la possediamo ancora nella realtà. Ora, la speranza che si vede non è più speranza: difatti una cosa che uno vede, come potrebbe ancora sperarla? Se pertanto noi speriamo ciò che non vediamo, l'attendiamo mediante la pazienza (Rm 8,24-25). E' nei mali che uno soffre, non nei beni che gode, che la pazienza è necessaria. E' questa la vita, di cui sta scritto: Non è forse una lotta la vita dell'uomo sulla terra? (Jb 7,1) nella quale ogni giorno gridiamo al Signore: Liberaci dal male (Mt 6,13); è questa vita terrena che l'uomo deve sopportare, nonostante il perdono dei peccati, pur essendo il peccato la prima causa della sua miseria. La pena infatti si protrae più della colpa; perché se la pena finisse con il peccato, saremmo portati a minimizzare la colpa. E' dunque come prova della miseria che ci è dovuta, o come mezzo per emendare una vita proclive al male, o per esercitare la pazienza che tanto ci è necessaria, che l'uomo è soggetto a punizioni temporali, anche se gli sono stati rimessi i peccati per i quali era reo della dannazione eterna. Questa è la condizione, lacrimevole ma non deplorevole, di questi giorni cattivi che passiamo in questa vita mortale, sospirando di vedere giorni buoni in quella eterna. Una tal cosa infatti proviene dalla giusta ira di Dio, di cui la Scrittura dice: L'uomo nato di donna ha vita corta ed è soggetto all'ira (Jb 14,1); anche se l'ira di Dio non è come quella dell'uomo, che è perturbazione dell'animo agitato, ma tranquilla decisione del giusto castigo. Tuttavia, in questa ira, Dio non soffoca, come sta scritto, la sua misericordia (Ps 76,10); tanto che, oltre alle consolazioni che non cessa di procurare al genere umano, nella pienezza del tempo da lui prestabilito Dio ha mandato il suo unigenito Figlio (Ga 4,4), per cui mezzo aveva creato l'universo, affinché, rimanendo Dio diventasse uomo, e l'uomo Cristo Gesù fosse mediatore tra Dio e gli uomini (Ga 4,4). Mediante la fede in lui, unita al lavacro di rigenerazione, siamo prosciolti da tutti i peccati, cioè dal peccato originale contratto mediante la generazione (soprattutto per liberarci da esso è stato istituito il sacramento di rigenerazione) e da tutti gli altri peccati che si commettono vivendo male. E' in questo modo che siamo liberati dall'eterna dannazione: e vivendo nella fede, nella speranza e nella carità, pellegrinando in questo mondo in mezzo a faticose e pericolose prove, ma anche sostenuti dalle consolazioni materiali e spirituali che Dio elargisce, noi camminiamo verso la visione beatifica, perseverando in quella via che Cristo ha fatto di se stesso per gli uomini. Ma anche camminando su questa via che è egli stesso, gli uomini non sono immuni da quei peccati che provengono dalla fragilità di questa vita. Per questo il Signore indica un salutare rimedio nell'elemosina, che deve suffragare l'orazione che egli stesso ha insegnato: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12). E' ciò opera della Chiesa, beata nella speranza pur operando in questa vita travagliata; e Pietro, per il primato apostolico di cui godeva, ne rappresentava simbolicamente l'universalità. Considerato nella sua persona, Pietro per natura, era soltanto un uomo, per grazia era un cristiano, per una grazia speciale era un apostolo, anzi il primo tra essi. Ma quando il Signore gli disse: A te daro' le chiavi del regno dei cieli, e ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli (Mt 16,19), egli rappresentava la Chiesa universale, che in questo mondo è scossa da prove molteplici, come da insistenti nubifragi, torrenti e tempeste; eppure non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui, appunto, Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. E il Signore disse: Su questa pietra costruiro' la mia Chiesa (Mt 16,18), perché Pietro gli aveva detto: Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16). E' dunque su questa pietra, da te confessata, che io costruiro' -dice il Signore - la mia Chiesa. La pietra infatti era Cristo (1Col 10,4); sul quale fondamento anch'egli, Pietro, è stato edificato. Si, perché nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto che è Cristo (1Col 3,11). La Chiesa dunque, che è fondata su Cristo, ha ricevuto da lui nella persona di Pietro le chiavi del regno dei cieli, cioè la potestà di legare e di sciogliere i peccati. Ciò che la Chiesa è in Cristo in senso proprio, Pietro lo è, in senso figurato, nella pietra; per cui, in senso figurato, Cristo è la pietra, e Pietro è la Chiesa. Questa Chiesa, quindi, rappresentata da Pietro finché vive in mezzo al male, amando e seguendo Cristo viene liberata dal male; benché lo segua di più nella persona di coloro che combattono per la verità fino alla morte. Tuttavia seguimi (Jn 21,19) è l'invito rivolto alla totalità della Chiesa, a quella totalità per la quale Cristo pati'; per cui lo stesso Pietro dice: Cristo pati' per noi, lasciandoci l'esempio affinché seguiamo le sue orme (1P 2,21). Ecco perché il Signore gli dice: seguimi. Esiste pero un'altra vita, immortale, libera da ogni male: lassù vedremo faccia a faccia ciò che qui si vede come in uno specchio e in maniera oscura (1Co 13,12), anche quando si è fatta molta strada verso la visione della verità. La Chiesa conosce due vite, che le sono state rivelate e raccomandate da Dio, delle quali una è nella fede, l'altra nella visione; una appartiene al tempo della peregrinazione, l'altra all'eterna dimora; una è nella fatica, l'altra nel riposo; una lungo la via, l'altra in patria; una nel lavoro dell'azione, l'altra nel premio della contemplazione; una che si tiene lontana dal male e compie il bene, l'altra che non ha alcun male da evitare ma soltanto un grande bene da godere; una combatte con l'avversario, l'altra regna senza contrasti; una è forte nelle avversità, l'altra non ha alcuna avversità da sostenere; una deve tenere a freno le passioni della carne, l'altra riposa nelle gioie dello spirito; una è tutta impegnata nella lotta, l'altra gode tranquilla, in pace, i frutti della vittoria; una chiede aiuto nelle tentazioni, l'altra, libera da ogni tentazione, trova il riposo in colui che è stato il suo aiuto; una soccorre l'indigente, l'altra vive dove non esiste alcun indigente; una perdona le offese per essere a sua volta perdonata, l'altra non subisce offese da perdonare, né ha da farsi perdonare alcuna offesa; una è colpita duramente dai mali affinché non abbia ad esaltarsi nei beni, l'altra gode di tale pienezza di grazia ed è così libera da ogni male che senza alcuna tentazione di superbia aderisce al sommo bene; una discerne il bene dal male, l'altra non ha che da contemplare il Bene. Quindi una è buona, ma ancora infelice, l'altra è migliore e beata. La prima è simboleggiata nell'apostolo Pietro, l'altra in Giovanni. La prima si conduce interamente quaggiù fino alla fine del mondo, quando avrà termine; il compimento dell'altra è differito alla fine del mondo, ma, nel mondo futuro, non avrà termine. perciò a Pietro il Signore dice: Tu seguimi. A proposito invece dell'altro: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi (Jn 21,22). Che significa questo? Per quanto so e posso capire, ecco il senso di queste parole: Tu seguimi, sopportando, come ho fatto io, i mali del tempo presente; quello invece resti finché io venga a rendere a tutti i beni eterni. In modo più esplicito si potrebbe dire: L'attività perfetta mi segua ispirandosi all'esempio della mia passione; la contemplazione già iniziata attenda il mio ritorno, perché quando verro essa raggiungerà il suo compimento. La religiosa pienezza della pazienza segue Cristo fino alla morte, la scienza invece resta finché verrà Cristo, perché solo allora si manifesterà la sua pienezza. Qui nella terra dei mortali, noi sopportiamo i mali di questo mondo; lassù, nella terra dei viventi, contempleremo i beni del Signore. Pero la frase: Voglio che lui rimanga finché io venga, non è da intendere nel senso di continuare a stare, o di dimorare qui, ma nel senso di aspettare e di sperare, perché la vita eterna, che in Giovanni viene simboleggiata, non raggiunge ora il suo compimento, ma lo raggiungerà quando sarà venuto Cristo. Ciò che viene raffigurato, invece, per mezzo di Pietro, al quale vien detto: Tu seguimi, se non si compie nel tempo presente, non si raggiunge ciò che si spera. In questa vita attiva quanto più amiamo Cristo, tanto più facilmente veniamo liberati dal male. Ma Cristo ci ama meno nelle condizioni in cui siamo ora, e perciò ce ne libera affinché non abbiamo ad essere sempre cosi. Nello stato in cui saremo allora, ci amerà di più, perché in noi non vi sarà più niente che gli sia sgradito, e che egli debba allontanare da noi. Qui in terra il suo amore tende a guarirci e a liberarci da ciò che egli in noi non ama. Quindi ci ama meno qui, perché non vuole che qui rimaniamo; ci ama di più lassù, perché vuole che là andiamo, e da dove vuole che mai ci allontaniamo. Amiamo Cristo come Pietro, per essere liberati da questa condizione mortale; chiediamo di essere da Cristo amati come Giovanni, per ricevere la vita immortale.
2 Ma in questo modo si dimostra perché Cristo abbia amato Giovanni più di Pietro, non perché Pietro abbia amato Cristo più di Giovanni. Infatti, se Cristo ci amerà nel secolo futuro (dove vivremo per sempre con lui) più di quanto ci ama ora in questo secolo da cui egli ci libera per farci stare sempre insieme con lui, non si spiega perché dovremo amarlo meno quando saremo migliori, dato che assolutamente non potremo essere migliori se non amandolo di più. Perché dunque Giovanni lo amava meno di Pietro, se rappresentava quella vita in cui si deve amare molto di più? La spiegazione sta proprio nelle parole del Signore, il quale parlando di Giovanni dice: Voglio che lui rimanga, cioè che aspetti che io venga. Ciò significa che ancora non possediamo questo amore che, allora, sarà molto più grande di ora; adesso non l'abbiamo ancora, ma speriamo di averlo quando egli verrà. Questo è quanto dice nella sua lettera il medesimo apostolo: Ancora non si è manifestato quel che saremo; sappiamo che quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo così com'è (1Jn 3,2). Quando lo vedremo, allora lo ameremo di più. Ma quanto al Signore, egli ama di più quella che sarà nel futuro la nostra vita, perché egli nella sua predestinazione la conosce già quale sarà in noi, e il suo amore si propone di condurci ad essa. Orbene, essendo tutte le vie del Signore misericordia e verità (Ps 24,10), riconosciamo la nostra miseria presente perché ne sentiamo il peso; e perciò amiamo di più la misericordia del Signore, da cui ci ripromettiamo la liberazione dalla nostra miseria, e dalla stessa misericordia imploriamo ogni giorno la remissione dei nostri peccati, e l'otteniamo. Questo viene simboleggiato in Pietro, che ama di più ed è amato di meno, perché Cristo ci ama meno quando siamo miseri di quando saremo felici. Anche noi ora amiamo meno la contemplazione della verità, quale allora sarà possibile, perché ancora non la conosciamo né la possediamo; questa viene rappresentata da Giovanni, che ama di meno, e che perciò attende che il Signore venga per metterlo in possesso della verità e per completare in noi l'amore che gli è dovuto. Giovanni pero è amato di più perché rappresenta ciò che rende eternamente beati.
(Nessuno divida questi due apostoli.)
3. Nessuno, tuttavia, divida questi due insigni apostoli. Tutti e due vivevano la vita che si personificava in Pietro, e tutti e due avrebbero vissuto la vita che in Giovanni era raffigurata. In Pietro veniva indicato che si deve seguire il Signore, in Giovanni che si deve rimanere in attesa di lui; ma tutti e due, mediante la fede, sopportavano i mali presenti di questa misera vita, e tutti e due aspettavano i beni futuri della vita beata. E non soltanto essi; questo è quanto fa la santa Chiesa tutta intera, la sposa di Cristo che attende di essere liberata da queste prove, per entrare in possesso della felicità eterna. Queste due vite, la terrena e l'eterna, sono raffigurate rispettivamente in Pietro e in Giovanni: per la verità tutti e due camminarono in questa vita temporale per mezzo della fede, e tutti e due godono nella vita eterna della visione di Dio. Fu quindi a vantaggio di tutti i fedeli inseparabilmente appartenenti al corpo di Cristo, che Pietro, il primo degli Apostoli, per guidarli in questa tempestosa vita, ricevette, con le chiavi del regno dei cieli, la potestà di legare e di sciogliere i peccati; e del pari fu per condurre gli stessi fedeli al porto tranquillo di quella vita intima e segreta, che l'evangelista Giovanni riposo sul petto di Cristo. Non è infatti soltanto Pietro, ma tutta la Chiesa che lega e scioglie i peccati; né Giovanni fu il solo ad attingere, come ad una fonte, dal petto del Signore, per comunicarla a noi, la verità sublime del Verbo che era in principio Dio presso Dio, e le altre verità sulla divinità di Cristo, quelle sublimi sulla Trinità e sulla unità delle tre persone divine, che nel regno dei cieli potremo contemplare faccia a faccia, mentre ora, finché non verrà il Signore, possiamo vedere solo come in uno specchio, in immagine. Anzi è il Signore stesso che diffonde il suo Vangelo in tutto il mondo, affinché tutti ne bevano, ciascuno secondo la propria capacità. Taluni, anche interpreti non disprezzabili della Sacra Scrittura, sono dell'opinione che Giovanni sia stato da Cristo prediletto perché non si sposo e visse castissimo fin dalla puerizia. Questo motivo non risulta chiaramente dalle Scritture canoniche; tuttavia questa opinione trova conferma nel fatto che Giovanni rappresenta quella vita in cui non vi saranno nozze.
4. Questi è il discepolo che attesta queste cose e che le ha scritte, e sappiamo che la sua testimonianza è vera. Ci sono ancora molte altre cose fatte da Gesù, che se fossero scritte una per una, il mondo stesso non basterebbe, penso, a contenere i libri che se ne scriverebbero (Jn 21,24-25 Jn 20,30). L'espressione non va intesa nel senso che nel mondo non v'è spazio sufficiente per contenere questi libri; come sarebbe possibile, infatti, scriverli nel mondo se il mondo non avesse la capacità di contenerli? Probabilmente si tratta della capacità dei lettori, non sufficiente a comprenderli. E' frequente il caso che, pur rispettando la verità delle cose, le parole risultino esagerate. Ciò accade non quando si espongono cose dubbie od oscure, adducendone le cause e i motivi, ma quando si aumenta o si attenua ciò che è chiaro, pur senza scostarsi dai limiti della verità. Allora le parole sono talmente esagerate rispetto alla realtà delle cose indicate che appare chiaro che chi parla non ha alcuna intenzione di trarre in inganno. Egli sa fino a che punto sarà creduto; e chi ascolta sa come interpretare certe espressioni esagerate in un senso o in un altro. Non solo gli autori greci, ma anche quelli latini, chiamano questo modo di esprimersi col termine greco di iperbole. Il quale modo di esprimersi non si incontra soltanto in questo passo ma in molti altri passi delle sacre Scritture: ad esempio, là dove, si legge: Mettono la loro bocca nel cielo (Ps 72,9); e ancora: Il vertice dei capelli di coloro che camminano nelle loro iniquità (Ps 67,22); e così in molti altri passi delle divine Scritture: si tratta sempre di tropi, cioè di modi di dire. Di queste cose vi parlerei più diffusamente, se l'evangelista, terminando il suo Vangelo, non m'inducesse a terminare anche il mio discorso.
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