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La voce della conchiglia

La voce della conchiglia
Il ricco e potente re delle Terre Ombrose aveva tre figli. Li aveva cresciuti nell’orgoglio ed educati
alla forza e alla generosità. Ma i tre fratelli erano molto diversi uno dall’altro. Il primogenito si
chiamava Valente. Era dotato di una gagliarda forza fisica e di un carattere risoluto, ma si mostrava
a volte altezzoso e arrogante.
Il secondo si chiamava Folco. Era intelligente e acuto, ma spesso avido e senza scrupoli.
Il terzo era poco più che un ragazzo e si chiamava Giannino. Portava capelli lunghi biondi che gli
incorniciavano un viso simpatico e lentigginoso, in cui brillavano gli occhi color castagne mature.
Giannino era svelto e furbo, ma doveva guardarsi continuamente dagli scherzi che gli giocavano i
fratelli più grandi che non lo stimavano molto.
Il re delle terre Ombrose era ormai vecchio ed era giunto il momento in cui doveva cercarsi un
successore. Ma il buon re non sapeva quale dei tre figli scegliere. Li amava tutti e tre, e per tutta la
vita non aveva mai fatto preferenze.
Così un giorno li convocò nella sala del trono. “Figli miei”, disse abbracciandoli con gli occhi, “uno di
voi sarà il mio successore. Ma sento di amarvi tutti allo stesso modo e non riesco a scegliere. Farò
così. Salirà sul trono delle Terre Ombrose quello di voi che riuscirà a portarmi lo Smeraldo Verde,
custodito nella Grotta Ferrea, nel paese del Nord”.
I tre fratelli rimasero senza fiato. Lo Smeraldo Verde era il sogno di tutti i cavalieri e di tutti i
guerrieri delle Terre Ombrose. Ma tutti coloro che erano partiti alla ricerca non erano mai tornati.
Troppe difficoltà erano disseminate sul percorso.
“So che è un’impresa difficile”, proseguì il vecchio re, “ma so che voi potete riuscirci. Vi lascerò tre 
doni che vi aiuteranno”. Pronunciando queste parole, il re alzò un panno ricamato che ricopriva tre 
oggetti posati su un tavolo. Erano una spada dalla lama lucente, un bel mucchio di monete d’oro e una 
conchiglia di quelle a torciglione, grossa due volte il pugno di un uomo. “La mia forza, la mia 
ricchezza, le mie parole.”, spiegò il re, “La lama di questa spada non può essere spezzata, chi avrà 
queste monete d’oro sarà il più ricco della terra e in questa conchiglia ci sono tutte le mie parole, 
quelle che vi ho detto da quando siete nati ad oggi. Scegliete”. Valente e Folco si scambiarono 
un’occhiatina e scelsero secondo le loro inclinazioni, senza badare a Giannino. Valente afferrò la 
spada fiammeggiante e Folco il sacco di monete. Giannino prese la conchiglia e se la legò al collo. Poi 
tutti e tre partirono. Valente sul suo focoso destriero; Folco sulla sua carrozza dorata; Giannino a 
piedi, ma fischiettando.
Il primo ostacolo era la Foresta Tenebrosa, dove regnava il feroce Malak, il bandito.
Valente fu il primo ad arrivare. Quando le sentinelle di Malak lo videro gli sbarrarono il passo, ma il
giovane principe sguainò la spada e ingaggiò un terribile combattimento.
Folco arrivò poco dopo sulla sua carrozza e si fece condurre da Malak in persona.
“Se mi fai passare ti offro cento monete d’oro”, disse al bandito.
“Ne voglio cento e cinquanta”, rispose Malak. “Cento e trenta”, ribatté Folco.“Duecento”.
“Centoquaranta…”. E la cosa cominciò ad andare per le lunghe.
Giannino arrivò verso sera. Valente stava ancora combattendo e Folco era più che mai avviluppato
nelle sue aspre contrattazioni. 
Il giovane portò la conchiglia all’orecchio. Sentì chiara e piena di bontà, la voce di suo
padre:“Ricordati, figlio mio, che pigliano più mosche con una goccia di miele che con un barile
d’aceto”. Giannino capì. Raccolse lamponi e mirtilli e preparò una bevanda dissetante e profumata.
Con un gesto semplice e cordiale la offrì a Malak. Il bandito sanguinario non aveva mai ricevuto un
regalo in tutta la sua vita ( e per questo era così cattivo). Assaggiò la bevanda, si asciugò i baffi e
poi disse a Giannino, con un po’ di sospetto:
“Perché lo fai?”. “Perché mi hanno detto che lei è il più coraggioso cavaliere dei dintorni!”. “Sei un
ragazzo in gamba. Chiedimi quello che vuoi e te lo darò”. “Mi lasci attraversare la foresta e
permetta che passino anche i miei fratelli, potente e generoso cavaliere”. Nessuno aveva detto
“generoso” a Malak che quasi si sciolse in lacrime. Così i tre fratelli passarono la Foresta Tenebrosa.
Valente e Folco stremati per la gran fatica si buttarono a terra e piombarono in un sonno profondo.
Giannino si portò di nuovo la conchiglia all'orecchio: “Ricordate che le ore del mattino hanno l’oro in
bocca”, disse la voce del padre.
Era ancora notte e Giannino ripartì.
Il secondo ostacolo era il Lago delle Tempeste e quando Giannino arrivò era ancora ghiacciato. Il
giovane lo poté così attraversare rapidamente, i suoi due fratelli arrivarono che il sole era alto, il
ghiaccio era sciolto e le onde dell’immenso lago ruggivano assassine. Valente e Folco furono costretti
a iniziare un giro lunghissimo e disseminato di pericoli per evitare il lago. 
Così Giannino giunse per primo al terzo decisivo ostacolo: la terrificante Palude della Tristezza. La
palude della Tristezza era una sconfinata distesa di fango. Solo chi aveva coraggio, tenacia e una
forza di volontà impareggiabili la poteva attraversare. Giannino cominciò risolutamente. Ma le sabbie
mobili e le radici delle piante morte sembravano tentacoli che lo attiravano verso il basso. Ogni
passo gli costava enorme fatica. Più tardi arrivarono anche Valente e Folco. Per loro le cose si
misero subito male. Il cavallo di Valente affondò e il giovane tentò di proseguire a piedi, ma la spada
e l’armatura lo impacciavano. A ogni passo affondava nella fanghiglia fino al naso. La carrozza di
Folco si rovesciò, il sacco dell’oro si aprì e tutte le monete finirono nelle sabbie mobili che le
inghiottirono, una dopo l’altra. Folco tentò invano di salvarne anche una sola. Dopo un po’ Valente e
Folco si ritrovarono seduti su una tronco marcescente a piangere sulla loro sfortuna. Più tristi della
Palude della Tristezza.
E Giannino? Vennero anche per lui momenti difficili. Camminava da un giorno e la palude sembrava
non finire mai. Ma quando insidiosi mulinelli di fango gli avvinghiavano le caviglie, si portava la
conchiglia all’orecchio. “Io ho una grande fiducia in te, figliolo. Tu sei tutto quello che ho al mondo.
Io sono fiero del tuo coraggio”, diceva la voce del padre. E altre volte sussurrava:
“Non si va da nessuna parte senza fatica e perseveranza. Se vuoi una vita grande, devi vivere alla
grande…Coraggio, figlio mio, i grandi ideali fanno grandi le forze… Scava nella tua anima, troverai
energie insospettabili…!”.
Ogni volta che sentiva la voce del padre, Giannino ripigliava animo. Finché vinse la Palude della
Tristezza e si trovò all’imboccatura della Grotta Ferrea, dove splendeva lo Smeraldo Verde. Allora,
pieno di gioia, accostò alla bocca la conchiglia e, con quanto fiato aveva in gola, gridò: “Grazie, papà!”.
(Bruno Ferrero)

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